Red Hot Chili Peppers, i 20 anni di “Californication”

L'album del "ritorno nel gruppo" del redivivo John Frusciante compie venti primavere: fu il canto del cigno di un decennio frenetico ed irripetibile

La copertina di "Californication"
7 Giugno 2019 alle 18:17

Talvolta succede. Nella musica, nello sport, in amore così come nella vita in generale. E stiamo parlando della persona giusta nel posto sbagliato. Del protagonista sbagliato nel gruppo giusto. Dell'ingranaggio fallato nel sistema operativo altrimenti perfetto. Ai Red Hot Chili Peppers, orfani del loro geniale chitarrista John Frusciante (che mollò la band nel 1992 nel bel mezzo di un tour mondiale finendo per ispirare anche un romanziere di razza come Enrico Brizzi), andò proprio così.

Facciamo un passo indietro lungo venticinque anni. Trovatisi a incidere un nuovo album che avrebbe dovuto bissare il successo dell'imprescindibile Blood Sugar Sex Magik ("imprescindibile" nel caso si voglia capire appieno lo spirito libero degli anni '90), i Red Hot si rivolsero ad un ragazzo d'origine messicana cresciuto in California: Dave Navarro, virtuoso della sei corde con un passato glorioso nei Jane's Addiction. Con lui, nell'autunno del 1995, realizzarono dopo un'attesa estenuante One Hot Minute, disco massacrato dalla critica e poco amato dai fan per il più banale dei motivi: non suonava affatto "alla Peppers".

Riascoltato oggi, il sesto, ambizioso sigillo di Flea e soci porta ancora impresso il blasone (amaro) dell'occasione sprecata: ottime canzoni al servizio di sonorità dure e psichedeliche. Con l'amato funk di opere frenetiche come Freaky Styley e Mother's Milk relegato ovviamente ai margini. Navarro, d'altronde, non era quel genere di musicista. Lui era (ed è) il tipico chitarrista losangelino che parte da Jimi Hendrix e sconfina nell'hard rock. Bravo, per carità, ma tutto sommato nella norma. Frusciante, invece, cominciava dal verbo funky di James Brown e George Clinton e finiva volentieri nei territori del sempiterno Hendrix. E, se ci pensate bene, non si tratta esattamente della stessa cosa. Già, ma dov'era finito nel frattempo l'enigmatico John?

John Anthony Frusciante, nato per sbaglio a New York il 5 marzo del 1970, in quei primi mesi del 1998 aveva da poco completato un ciclo di rehab da eroina e cocaina che, al tirare delle somme, avrebbe finito per salvargli la vita. All'epoca si disse che non possedeva neanche più una chitarra (oltre a gran parte dei suoi denti), tutte vendute al banco dei pegni per pagarsi quei rischiosi vizi. La clinica di disintossicazione, insomma, fu un passaggio obbligatorio e cruciale.

«Venuti a conoscenza che era finalmente pulito, licenziammo in tronco Dave e chiedemmo a John di rientrare in fretta nel gruppo. Avevamo un disperato bisogno di lui, altrimenti i Red Hot Chili Peppers sarebbero morti a loro volta...». Interrogato sull'argomento, non ci gira troppo attorno l'amico fraterno Flea. E Frusciante, in quel '98, fortunatamente ci sta. Si sente nuovamente pronto.

John, con la mente sobria, sente di dover dire ancora la sua all'interno di un gruppo che, poco alla volta, sta mutando verse nuove forme artistiche. Passa quindi l'intera estate a buttare giù idee su idee, una meglio dell'altra. Si mette al servizio di nuove canzoni che il cantante Anthony Kiedis e lo stesso Flea gli presentano in sala prove. Riacquista confidenza con la batteria secca di Chad Smith (nei Red Hot il suono sincronizzato di chitarra e batteria rappresenta da sempre il via libera per le evoluzioni del basso) e, particolare di non poca importanza, empatizza col produttore Rick Rubin chiamato (si dice dopo il rifiuto di un certo David Bowie...) a dare forma a quello che diventerà Californication.

Il barbuto Rubin, da perfetto mental coach, sprona sia la band che il ritrovato Frusciante. Anzi, se lo prende proprio a cuore quel guitar hero timido e sdentato. Gli consiglia inanzitutto di non abbandonare le sue radici nere, ma di metterle a disposizione di un songwriting più classico, capace di sublimare le incendiarie intuizioni dei Cream (e John, tanto per cambiare, adora Eric Clapton), il lato eccentrico della new wave, la recente lezione post grunge degli Smashing Pumpkins e il soft rock da radio FM di gente come i Fleetwood Mac.

A fronte di tutte queste fantastiche solleticazioni, Californication - fin dal quel 8 giugno 1999, giorno della sua uscita ufficiale - viene al mondo baciato dal calore dell'estate e finisce per diventare sia un mostro di vendite (15 milioni di copie) che un paradigma stilistico dal quale i Red Hot non si staccheranno mai più. I loro successivi lavori (con Frusciante o meno visto che l'irrequieto chitarrista abbandonerà nuovamente il gruppo nel 2009), difatti, hanno più volte tentato di clonare quella formula vincente, quella eccitante "californicazione", senza mai riuscire a ricrearla completamente.

Questo non vuol dire che i successivi, gradevoli By The Way, Stadium Arcadium (disco addirittura doppio), I'm With Yours e l'ultimo The Getaway (questi ultimi due registrati col chitarrista Josh Klinghoffer) siano delle ciambelle senza il buco, ma allo stesso tempo non possiedono quella "magia" (non sapremmo altrimenti come chiamarla) che il settimo disco di Kiedis e company si porta tuttora dietro.

Ok, centrò con ogni probabilità anche la fine incombente del millennio, le sue tensioni, ma Californication fu un canto del cigno semplicemente clamoroso. Una celebrazione dell'estate, come stagione dell'anima, al pari dei migliori Beach Boys. Un disco che ci portiamo impresso perché aveva in sè il profumo del progresso (riguardatevi, ad esempio, il videoclip della titletrack), ma anche il fascino romantico della seconda chance (che non tocca sempre a tutti) e l'irruenza naive dell'ora o mai più. Più il Frusciante's touch, ovviamente. Un monumento pop, insomma.   

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