Lino Banfi ripercorre la sua carriera: «Fellini ha vinto l’Oscar ma io ho fatto ridere i russi»

Sorrisi dedica una collezione di dvd imperdibile a Lino Banfi (con 34 titoli e un milione di gag) con lui abbiamo parlato dei suoi film, dall'inizio a «Un medico in famiglia»

Lino Banfi
23 Giugno 2017 alle 14:53

Temo di essere in preda a un attacco di «Linomania»: un morbo che negli ultimi tempi si è diffuso sempre di più. Sarà che siamo nati lo stesso giorno, il 9 luglio, sarà che mi riporta ad allegri ricordi d’infanzia, ma incontrare Nonno Libero, ehm... scusate, Lino Banfi, riempie di buonumore. Tanto più che mi ospita nel suo studio tra mille ricordi ben conservati, dai Telegatti a una lettera di Fellini, dalle foto con Totò alla laurea di «allenatore ad honorem» intestata a Oronzo Canà per «L’allenatore nel pallone». Infatti oggi siamo qui per parlare dei suoi film, che arrivano in edicola con Sorrisi.

Banfi, come è iniziata la sua avventura nel cinema?
«Era il 1953 e dalla Puglia ero sbarcato a Milano senza un soldo in tasca. Dormivo alla stazione e facevo il posteggiatore abusivo. Poi, finalmente, l’avanspettacolo nei cinema. Allora funzionava così: una proiezione e uno sketch, una proiezione e uno sketch... durante il film mi nascondevo dietro lo schermo, dove le immagini scorrevano rovesciate, indicavo Manfredi e dicevo: io un giorno lavorerò con lui. Mi davano del matto. E invece è successo».

Il successo è arrivato con la cosiddetta «commedia sexy». 
«Ne giravo anche cinque all’anno. Mi chiamavano e dicevano: “Allora, facciamo un moglie-contro-amante, due liceali e un’infermiera dell’esercito...”. Io preferivo il filone scolastico perché mi ha fatto crescere: nel primo film facevo il bidello, nell’ultimo il preside. Erano pellicole amatissime dalla gente ma i critici niente, mai una parola».

Si rende conto che nel ’73, mentre Fellini girava «Amarcord» con cui avrebbe poi vinto l’Oscar, lei recitava in «Il brigadiere Pasquale Zagaria ama la mamma e la polizia»? Quasi una provocazione.
«Le voglio raccontare una storiella. Ci fu un festival del cinema italiano a Mosca, con tre tendoni nella Piazza Rossa dove proiettavano un film di Fellini, uno dei Taviani e il mio “L’allenatore nel pallone”. Indovini qual era l’unico tendone pieno di gente? I critici blasonati snobbavano quei film, ma li guardavano di nascosto. E oggi stanno confessando tutti. Quando ne incontro uno dico: “Ammettilo che ti divertivi!”. E lui tutto rosso fa segno di sì».

Come spiega quell’enorme successo?
«Mettiamola così: con la scusa della contestazione e dell’amore libero venivano tutti a vedere Edwige Fenech e me. Beh, più Edwige che me...».

Era lei la più bella?
«Sì, perché Edwige non è sexy solo per il sedere o il seno. Troppo facile così. Edwige è sexy anche nel naso, nell’orecchio, nel sorriso. È sexy dappertutto» (segue una irriferibile esclamazione in pugliese, ndr)».

Mai stato tentato?
«Ma dove potevo andare io? Erano tutte corteggiate da uomini bellissimi, ricchi e potenti. Figurarsi. Anzi, una volta Edwige se ne è accorta e mi ha detto: “Non buttarti giù, in fondo non sei così brutto”. E io: “È proprio quell’in fondo che mi butta giù!”».

E non si imbarazzava mai? In fondo, lei ha fatto cinque anni in seminario.
«Solo perché in una famiglia contadina come la mia quella ecclesiastica era l’unica carriera che si poteva sognare. “Pasqualino ha tutti bei voti” dicevano, “mandiamolo in seminario che magari ci diventa cardinale”. Comunque con quello che si vede oggi si capisce che erano film ingenui, puliti. Anche perché le attrici facevano la doccia in continuazione. Più puliti di così!».

E «L’allenatore nel pallone» come è nato?
«Da un incontro con Nils Liedholm all’aeroporto. Mi fa: “Tu che sei di Andria, lo conosci Oronzo Pugliese, l’allenatore del Bari? Ah, era un tipo eccezionale, si portava pure le galline allo stadio!”. Da lì l’idea di Oronzo Canà. Canà perché la moglie si chiama Mara e così potevo fare il gioco di parole Mara-Canà...».

Lei è famoso pure in Germania, dove nel 2009 ha ottenuto grande successo con la commedia «Indovina chi sposa mia figlia!».
«Sì, e tutto imparando le frasi a memoria o leggendole sui cartelli, perché io non parlo il tedesco. Ho visto il film il giorno della prima. Mi hanno coperto di applausi e io dicevo: “Danke danke”, ma non avevo capito un’acca della storia. Il problema è che ora là mi fermano per strada e quando dico che non parlo tedesco pensano che stia facendo lo spiritoso».

Ma lei quando si è accorto che era esplosa la «Linomania»?
«Una decina di anni fa, da vari segni. Uno è che da un po’ anziché dirmi: “Ti conosco, sei quello dei film”, mi dicono solo: “Grazie Lino”. Un altro sono i bimbi che vogliono abbracciarmi. Un altro ancora, le cose folli che scrivono i fan: guardi qui (mi mostra un foglio con scritto “Tu per me sei più che la bandiera, tu sei... Lino nazionale”). Anche il fatto che Quentin Tarantino mi abbia gridato “Maestro” a Venezia mi ha aperto gli occhi. Ma il segno più importante è che oggi suore e preti mi salutano: prima mi evitavano, ero “scandaloso”. A proposito...».

...un’altra storiella?
«Già. Passeggiavo per Roma quando l’auto di un cardinale straniero ha accostato al mio fianco. L’autista si è messo a parlare in spagnolo col porporato, che era imbarazzatissimo. Alla fine, ancora più rosso del suo abito talare, ha tirato fuori il cellulare e mi ha mostrato un video: era la scena in cui io e un prete ci prendiamo a schiaffoni in “Vieni avanti cretino”. E mentre la guardava, rideva come un matto!».

Seguici