Imagine Dragons: intervista alla band di “Believer”

Intervista al gruppo di Las Vegas che nel nuovo video di Believer se la vede con Dolph Lundgren, alias il mitico Ivan Drago di Rocky IV

14 Marzo 2017 alle 18:11

Ci sono le fan (giovani, carine e sospiranti) fuori dagli uffici della Universal per l’arrivo in Italia degli Imagine Dragons, americani del Nevada, due album all’attivo, nove milioni di copie vendute (i singoli digitali invece arrivano alla stratosferica cifra di ventisette milioni) e un’idea moderna di pop, ma allo stesso tempo bulimica e mai del tutto scontata. Buon segno quando qualcuno è lì in attesa per te. Vuol dire che il tuo nuovo disco (di cui abbiamo ascoltato cinque nuove canzoni in anteprima, ma di cui non possiamo dirvi nulla in quanto “versioni non definitive”) è atteso e non andrà smarrito tra le troppe uscite che il mercato contemporaneo continua a proporci.

All’incontro con Sorrisi è presente la band al gran completo - il cantante Dan Reynolds, il chitarrista Wayne Sermon, il bassista Ben McKee e il batterista Daniel Platzman - anche se alla fine sarà lo stesso Dan a prendere le redini dell’intera conversazione.

Bel tipo, comunque, questo Reynolds: parla a cuore aperto e difende con le unghie la sua band da quei critici astiosi che ora l’accostano ai Coldplay più tecnologici, ora a fenomeni confinati nell’hit parade. Non è così: le canzoni degli Imagine Dragons sono bestie strane. C’è dentro l’hip hop contagioso del terzo millennio, ma anche la malinconia dei Mumford & Sons, l’esotismo dell’afrobeat e certi accordi squillanti degli U2. L’elettronica e l’acustico. Il coro che non perdona e il crescendo che ti fa vivere. L’artigianato e il master in ingegneria spaziale. Sono un gruppo del 2017 e vanno rispettati per questo. Ascoltiamoli.

Il vostro nuovo singolo ‘Believer’ ha qualcosa di strano al suo interno. Sarà il tuo cantato al confine col rap, sarà quel coro ipnotico che non ti abbandona praticamente mai o quella chitarra di natura quasi africana: che ne pensi?
Dan Reynolds: «Sono d’accordo con te. Sai, come artisti sentiamo questo bisogno di fare sempre qualcosa di leggermente differente, quindi ‘Believer’ non è né ‘Radioactive’‘Demons’ o altre nostre canzoni che hanno avuto successo nel mondo. In pratica vogliamo scrivere brani che si amano o si odiano, ma che non lascino mai indifferente l’ascoltatore. Una delle mie band preferite in assoluto sono stati i Nirvana e loro erano bravissimi in questo. La lezione di Kurt Cobain è stata decisiva per me visto che non potrei mai comporre musica in cui non credo.».

Mi stai forse dicendo che gli Imagine Dragons sono diventati una band seriosa? Che nel vostro nuovo album non ci saranno momenti leggeri alla ‘On top of the world’?
«Diciamo che con questo terzo disco – di cui purtroppo non posso ancora anticiparti il titolo – siamo riusciti a inglobare entrambe le cose: dentro ci troverete sia la spontaneità del pop che suoni più oscuri e ricercati. Ovviamente noi non potremmo mai incidere un disco alla Alice In Chains, non abbiamo nel nostro DNA quel peso di vivere, però allo stesso tempo sappiamo cosa vuol dire essere introspettivi.».

Il titolo non puoi dirmelo, ok, ma questo sarà pur sempre il vostro album numero tre. Una tappa importante per molti gruppi: pensa solo a ‘Led Zeppelin III’, allo stesso ‘In Utero’ dei Nirvana o a ‘Mellon Collie and the Infinite Sadness’ degli Smashing Pumpkins. Vi sentite coinvolti da questa cabala oppure, ai tempi di Spotify, questi sono discorsi puramente anacronistici?
«Scherzi? Noi siamo una band vera e propria! Quindi suonare dal vivo è importante quanto avere una precisa storia discografica. Molte popstar non sanno nemmeno cosa significhi lavorare alla ‘costruzione’ di un album: puntano sui singoli da classifica e la cosa finisce lì. Noi no: per gli Imagine Dragons e i nostri fan questo è il terzo capitolo di una storia cominciata ai tempi di ‘Night Visions’ e proseguita con ‘Smoke + Mirrors’. Una storia che ha bisogno di sostanza. E di album fatti per bene.».

Parliamo un attimo del video di ‘Believer’, quello dove tu boxi (e perdi sangue) con l’attore Dolph Lundgren che qua in Italia ricordiamo per il suo iconico ruolo di Ivan Drago in ‘Rocky IV’. Hai usato una controfigura?
«No, mi sono allenato per due mesi facendo shadowboxing (un tipo di pugilato senza avversario diretto, ndr), ma alla fine sul set avrò beccato almeno venti pugni andati a segno sul mio viso! Colpi leggeri, s’intende. Se no adesso non sarei qui. (ridacchia)».

E non hai mai avuto paura? Voglio dire: avevi di fronte mister “Ti spiezzo in due”…
«Dolph è stato un grande ed io non potevo assolutamente permettermi d’avere paura. Il nostro obbiettivo era quello di realizzare un videoclip molto fisico perché ‘Believer’, in definitiva, parla di pesi che ci portiamo sulle spalle. Ad un certo punto io dico a Lundgren “Voglio fermarmi” e lui mi risponde, spietato, “Non possiamo”. Il senso della canzone sta tutta lì: quando hai un fardello dentro di te, non puoi arrenderti. Devi andare avanti sino alla fine. Senza timore.».

In ‘Believer’ appari con un tatuaggio all’altezza del cuore formato da due misteriose ‘E’ speculari…
«(Dan tradisce un po’ di imbarazzo, Ndr) Ehm, non posso dirti granché a parte che quello non è un vero tattoo. Il segreto di quel simbolo? Top secret, ne saprai di più a breve…»


Tu sei nato nel 1987 mentre ‘Rocky IV’ io lo vidi al cinema nella primavera del 1986: come la mettiamo?
«L’ho recuperato in seguito. Mio papà è sempre stato un grande appassionato di film d’azione e il ciclo di ‘Rocky’ è sempre stata una sorta di culto a casa mia. Dolph Lundgren l’ho scoperto durante quelle maratone cinematografiche ed è subito diventato leggenda per me.».

Qual è la tua pellicola preferita con Lundgren protagonista?
«Ovviamente ‘I Dominatori dell’Universo’ (‘Masters Of The Universe’ in inglese, Ndr), quello dove interpretava l’eroe He-Man. Nel video di ‘Believer’ tutti pensano immediatamente a ‘Rocky IV’ per le scene di pugilato, però noi abbiamo voluto tributare anche gli effetti speciali vintage di quel film fantasy passato un po’ inosservato, ma comunque indimenticabile.».

Quest’estate vi esibirete il 3 luglio a Verona (Arena) e il giorno successivo a Lucca (Summer Festival): ma è vero che tua moglie è mezza italiana?
«Sì. Aja (Volkman, Ndr) viene dall’Oregon ma in realtà suo padre è spagnolo mentre da parte di mamma scorre sangue italiano. Io, tra l’altro, ho sempre avuto un’indole sulle ragazze del tuo Paese: la mia fidanzata ai tempi del liceo era italiana a sua volta. (sorride)».

Falle i complimenti per il nome.  ‘Aja’, per un appassionato di musica, suonerà sempre speciale…
«Ti riferisci al capolavoro degli Steely Dan? (sorride) Guarda che è voluto! I genitori di Aja, da giovani, andavano pazzi per quella band. D’altronde come si fa a non amare un disco dove ci suonano dentro Donald Fagen e Walter Becker? È semplicemente impossibile.».

Dagli Steely Dan profumati di pop jazzato anni ’70 alle contaminazioni odierne degli Imagine Dragons. Fate un piccolo sforzo e vedrete che un nesso c’è. Si chiama credere in ciò che si fa. E rendere felice il proprio pubblico.

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