«One More Light: Live» dei Linkin Park, un disco dal vivo per dirci che Chester è ancora tra noi

L'album non è solo un'operazione natalizia, ma riassume un anno - il 2017 - dove foschi presagi erano già nell'aria...

Linkin Park  Credit: © James Minchin
14 Dicembre 2017 alle 11:20

Appena ho ricevuto notizia dell’uscita di «One More Light: Live», il nuovo disco dal vivo dei Linkin Park, mi è subito venuto in mente un altro loro album che imprigionava l’energia di un concerto del gruppo originario di Agoura Hills, periferia di Los Angeles: il grezzo «Live in Texas», uscito a sua volta nell’ormai lontano 2003 e registrato quando erano la band di supporto dei Metallica. Chissà perché, a dire il vero. Poi ci ho ragionato sopra con più attenzione.

Ho ripensato a quello show perché fu il primo sigillo on the road dei californiani. Imprigionato in un formato, quello del disco dal vivo, al quale sarebbero stati fedelissimi per tutta la loro incredibile carriera. «One More Light: Live» difatti è il sesto live album in una discografia che comprende "solo" sette lavori da studio. Quasi un record.

Nulla a questo punto dovrebbe stupirci sul fatto che i Linkin Park abbiano voluto proseguire tale tradizione, perdipiù tramite un'uscita studiata per le feste natalizie. Invece quest'opera suona inevitabilmente strana e diversa. E ci mancherebbe altro che non fosse così. Tra questi file digitali, d’altronde, canta e suona una persona che non è più tra noi: Chester Bennington, voce del gruppo e padre di famiglia suicidatosi il 20 luglio scorso, all'età di 41 anni.

Inutile girarci attorno: «One More Light: Live» passerà alla storia come il testamento artistico di Chester per una serie infinita di circostanze. A partire dalla sua rapida realizzazione basata sulle appena 21 esibizioni (quattro in Sud America e diciassette in Europa, compresa quella italiana del 17 giugno a Monza) tenute dai Linkin Park quest'anno. E comunque, quando Bennington decise di dire basta, la band era in ottima forma e pronta a dare inizio al suo tour statunitense che sarebbe partito una settimana dopo. Quest'album quindi nasce esattamente da quel terreno fertile, coltivato con cura tra Buenos Aires (prima data) e Birmingham (ultima). Una testimonianza preziosa.

Particolare da non sottovalutare: in mezzo a tutta l'asfissiante promozione che precede normalmente l'uscita di un disco per una major, ci fu anche la fatidica giornata del 19 maggio 2017, evento a suo modo cardine del tragico anno linkinparkiano. Chris Cornell, lo sfortunato frontman di Soundgarden e Audioslave, si era appena levato la vita a Detroit il giorno prima e il mondo del rock era completamente sotto shock, diviso tra parole di cordoglio e pettegolezzi inutili, quelli che si spendono a giochi fatti.

I Linkin Park, invitati ad una puntata del Jimmy Kimmel Live!, dedicarono all'amico scomparso la titletrack del loro nuovo album che - tragica coincidenza - usciva proprio quell'esatto giorno. In quel tenue «We love you, Chris!» sussurrato da Chester prima di eseguire «One More Light» ci stava già tutto il profondo senso di lutto che avrebbe segnato la band nei mesi successivi. Ma a quei tempi, ovviamente, nessuno poteva sospettarlo. Perfino il loro ultimo concerto europeo (7 luglio a Manchester) fu annullato perché l'Arena locale non era ancora stata messa a norma in seguito all'attentato terroristico del 22 maggio precedente che avvenne a margine dello show di Ariana Grande. Un altro triste presagio? Forse.


Ed ora è la volta di questo disco dove, al tirar delle somme, si intensifica quella svolta pop già concretizzatasi con l'arrivo del settimo album degli stessi Linkin Park. Una rivoluzione contestata aspramente dalla critica in cui però i componenti del gruppo credevano ciecamente fin da tempi non recenti.

Sono infatti ben otto, su un totale di sedici, le canzoni del bistrattato «One More Light» finite nella scaletta del concerto e testimoniate qui. Compresa la zuccherosa «Nobody can save me» che riascoltata oggi acquista tutt'altro significato e ci sembra perfino inquietante. Oppure la più emozionante di tutte, vale a dire quella «Sharp edges» che arriva a margine dei bis. Si tratta di una melodia country, quasi degna del «White Album» dei Beatles, eseguita da Brad Delson alla chitarra acustica mentre Chester pizzica timidamente una elettrica. Sbuca perfino un pizzico di humor quando lo stesso Bennington si lamenta di come sia difficile suonare una sei corde dal vivo...

Per quanto riguarda il resto (e per non spaventare troppo lo zoccolo duro dei fan...) ecco riapparire i cari, vecchi Linkin Park a partire da quella «New divide» - che stava sulla colonna sonora di un film della serie «Transformers» - o dalla convincente «Leave out all the rest» che si conferma a distanza di un decennio la ballad più intensa mai scritta dal sestetto. Le restanti hit includono le immancabili «What I've done», «In the end», «Numb» e addirittura una «Crawling» recuperata dal debutto «Hybrid Theory» (2000) che mise la band sulla mappa.

Il gran finale, l'ultima volta in cui sentiremo la voce di Chester, è una «Bleed it out» suonata alla vecchia maniera, come se stessimo ancora ascoltando i Linkin Park che spargevano urla su chitarre nervose qui, però, ben attente a non cadere nella scorciatoia della distorsione. Ultima volta a meno che non usciranno le solite registrazioni postume o altri live sbucati dagli archivi. L' «In The End» dei sei ex ragazzini del nu metal per ora resta questo: una performance dibattuta tra l'ansia del presente e i vecchi fantasmi del passato.

Detto in maniera ancora più amara: una metafora di cosa è stato il travaglio esistenziale di Bennington fino a quel maledetto 20 luglio di un'estate fa, il giorno del compleanno di Chris Cornell. Quando in Italia, al momento del fatidico lancio dell'ANSA, eravamo ormai al tramonto. Di un pomeriggio di un giorno da cani.

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