Nino D’Angelo: uno show per i suoi 60 anni. L’intervista

Il 24 giugno al San Paolo di Napoli "Concerto 6.0". Tra gli ospiti anche Gigi Finizio, Maria Nazionale, Rocco Hunt e Clementino

Nino D'Angelo in concerto  Credit: © Roberto Troisi
13 Giugno 2017 alle 08:40

E’ la voce che ha raccontato Napoli in tante sfumature e che continua ad esaltare. Nino D’Angelo, uno degli artisti più amati a partire dagli anni Ottanta, festeggia i suoi 60 anni allo stadio San Paolo con uno show-evento dal titolo “Concerto 6.0” in programma sabato 24 giugno. Il palco sarà allestito in quella curva B tanto cara all’artista napoletano, protagonista di uno dei suoi film più amati “Quel ragazzo della curva B” (per la regia di Romano Scandariato). “Concerto 6.0” è, soprattutto, l’inizio di un progetto che proseguirà per tutto il 2017 e che culminerà in un triplo cd contenente anche il dvd dello stesso spettacolo live al San Paolo.

Nino, più che un concerto, il 24 giugno sarà una grande festa popolare…
«E’ lo stile della classica festa napoletana ed è uno spot per la città, per i napoletani stessi. Il mio sogno era cantare nella curva B dove da bambino mi portava mio nonno sulle spalle. Ho dedicato un inno alla curva B. Io ero uno di quei ragazzi tifosissimi del Napoli. I 40 anni li ho festeggiati a Scampia, i 50 al Teatro Trianon di Napoli. Ora ho voluto esagerare. C’era questa possibilità di farla allo stadio, che è il simbolo di Napoli, e ne ho approfittato».

Sul palco sono previsti ospiti a sorpresa. Ci puo’ anticipare qualche nome?
«Gigi Finizio, Maria Nazionale, Rocco Hunt, Clementino, Enzo Gragnaniello, James Senese, insomma artisti che sono rappresentativi di vari generi nel mondo della musica napoletana. Avevo chiamato anche Edoardo Bennato ma, quella sera, si esibirà a Mantova».

Napoli è sempre nel suo cuore e lei è sempre nel cuore dei napoletani. Un amore infinito…
«Napoli è “a vita mia”, è la mia città. Sono un vero napoletano e sono fiero di esserlo. Ho casa a Roma dove vive la mia famiglia e dove i miei figli hanno studiato ma la maggior parte del tempo abito a Casoria. Se vieni a casa mia, a Roma, respiri e vedi Napoli…».

Lei nasce in una famiglia povera. A 13 anni vendeva gelati alla stazione di Napoli centrale.
«Andiamo per ordine: dopo la licenzia media che sono riuscito a prendermi cantando “La Marsigliese”, mio padre che lavorava nel buffet della stazione di Napoli Centrale, mi portava quasi ogni giorno con lui e io mi divertivo a vendere gelati e cestini da viaggio sui treni prima che partissero. Intanto cantavo le canzoni napoletane. Già precedentemente però, anche a scuola, il professore di religione mi aveva coinvolto nell’azione cattolica e mi faceva cantare. Ricordo che mentre i miei amici amavano Morandi, Pavone, I Beatles, io andavo controcorrente cantando in dialetto napoletano. D’estate, le associazioni cattoliche seguivano i bambini poveri per toglierli dalla strada e organizzavano per loro attività ricreative. Facevamo spettacoli, suonavamo, cantavamo e giocavamo a pallone»

Come è avvenuto il grande salto?
«C’era un mio amico che, oltre a vendere cestini da viaggio sui treni, organizzava matrimoni. Dopo avermi sentito cantare, mi chiese se volevo esibirmi nelle feste private e così accettai. Io nasco come cantante dei matrimoni. Poi arrivai pian piano alla Galleria Umberto dove c’era una sorta di mercato di cantanti. Arrivò il periodo delle feste di piazza ma il grande salto lo devo alle radio libere degli anni Ottanta dove c’è stata la riscoperta della piccola canzone napoletana. Diventai uno dei più ascoltati e più popolari».

Ma di chi è stata l’idea del caschetto biondo?
«Mi dicevano che sapevo cantare ma fisicamente non ero proprio una gran bellezza. Ero gracile e bassino. Dovevo scegliere un look, un particolare che mi facesse distinguere dagli altri così insieme con il mio parrucchiere, optammo per il caschetto biondo».

Prima di lei, solo la Carrà e la Caselli erano soprannominate “i caschetti d’oro”. All’inizio, la sua sembrava quasi una caricatura…
«All’inizio non mi piaceva poi quella pettinatura ha decretato la mia popolarità. Sono stato ospite di molte trasmissioni di Raffaella Carrà mentre la Caselli l’ho incontrata in una trasmissione di Fazio e ci siamo fatti delle gran belle risate…».

Negli anni Ottanta era famoso per le sue canzoni da cui poi nascevano i musicarelli “made in Napoli”. Che aneddoti ha?
«Sulle canzoni si costruivano i film. Ho dei ricordi straordinari. Io non avevo mai recitato e durante le riprese del mio primo film “Celebrità” diretto da Ninì Grassia, vero talent scout, mi ritrovai di fronte a Regina Bianchi, grande attrice italiana. Dal niente al troppo. Ebbi qualche difficoltà, mi sentivo piccolino piccolino ma lei, da brava professionista quale era, seppe aiutarmi. Non sapevo che quando si recitava non bisognava guardare la telecamera. Io avevo gli occhi fissi sul puntino rosso e puntualmente ripetevamo le scene innumerevoli volte… Poi c’è un aneddoto su quei musicarelli. Quando erano corti, i film erano allungati con le corse sulle spiagge, gli abbracci, i baci oppure con l’altra protagonista ci rotolavamo sulla sabbia. Per questo motivo, il regista, prima di recarci sul set, ci chiamava e ci diceva di indossare scarpe da tennis».

Nel 1983 uscì in abbinamento disco e film “Nu jeans e na maglietta”. La pellicola al cinema fece gli stessi incassi di “Flashdance”…
«”Flashdance era costato miliardi. Per il nostro, girato a Capri in tre settimane, erano stati spesi a malapena trecento milioni. In tutta Italia, gli incassi erano per metà del film americano e per metà i nostri. Solo in Campania perdemmo per sessanta biglietti».

Lei si addormentò povero e si svegliò ricco. Come ha vissuto il successo immediato?
«Come una favola. In effetti ho vissuto la povertà come un dono e ho fatto una gavetta piacevole perché cantavo. Era tutto un gioco. Ebbi successo con il mio primo disco “A parturente”, canzone della sceneggiata napoletana».

Lei era diventato il nuovo interprete del filone neomelodico e della sceneggiata, erede di Mario Merola. Che ricordi ha di lui?
«Il neomelodico lo inventai io ma lo hanno chiamato così dopo trent’anni… Mario Merola era il re della sceneggiata. Ho frequentato per tanto tempo la casa di Merola, era per me, una persona di famiglia. Penso di essere stato un nuovo cantante napoletano, erede della canzone napoletana. All’epoca, nei vicoli, la gente impazziva per la sceneggiata di Mario Merola, Mario Trevi, Pino Mauro, io volevo cantare l’amore, mi sono ispirato ai temi della canzone classica napoletana. Diciamo che ero più pop. Per me i neomelodici veri sono stati gli Almamegretta, i 99 Posse».

In quegli anni lei era amatissimo dal pubblico ma critica e intellettuali furono impietosi. Veniva definito “l’idolo dei Tamarri”. Quanto l’amareggiavano questi pregiudizi?
«Le mie canzoni erano pensate in napoletano e avevano ritornelli scritti in italiano. Questo forse fu il mio limite, infatti quando uscivo fuori dal mio contesto, venivo considerato “terrone”. Il sud è stato sempre pieno di pregiudizi. Anche a Napoli, c’era il confronto continuo tra Vomero e Secondigliano, le diseguaglianze esistono sempre. Mi consideravano l’idolo dei ramarri perché parlavo in napoletano che era ed è l’unica lingua che conosco e che penso di parlare bene. Dico sempre che esistono i cantanti di Napoli e i cantanti napoletani».

Qual è la differenza sostanziale?
«I cantanti di Napoli sono gli artisti che si servono della canzone napoletana per convenienza mentre i cantanti napoletani sono quelli che vivono dalla mattina alla sera della canzone napoletana. Ho dedicato una vita al dialetto e sono contento che negli ultimi anni sia stato rivalutato».

A molti, all’epoca, facevano ridere quella sua mimica facciale, quel volto corrugato quasi a voler piangere e le narici allargate mentre intonava le sue canzoni. Insomma un autentico “cantattore” della canzone napoletana…
«La madre di questa gestualità è la serenata. Se dai un microfono al cantante napoletano, sembra di darlo al posteggiatore sotto casa che intona una serenata per l’amata o per la mamma. Poi dipende dalla scuola di provenienza. I cantanti rock simulano sempre di avere una chitarra in mano anche se non ce l’hanno. Il cantante napoletano “chiure l’uocchi e canta”. La melodia ti fa piangere. Una volta incontrai in America il cantante Giacomo Rondinella che veniva chiamato “o chiagniazzaro” e mi disse: «Cavolo a me hanno dato questo soprannome ma tu piangi più di me…».

Nino, quando si rivede in quei film, cosa prova?
«Tenerezza. Mi vedo giovane, semplice e così vero. Erano film realizzati con pochi soldi ma con tanta passione».

In quegli anni c’è stato qualcuno che ha insinuato che il suo successo fosse legato agli ambienti camorristici. Le sue canzoni e i suoi film così come anche quelli di Merola, venivano associati nell’immaginario collettivo sì alle belle storie d’amore ma anche alle sgommate, agli avvertimenti e agli sguardi minacciosi dei malavitosi ma anche al divario netto tra persone povere e gente arricchita…
«Questa è una notizia nuova per me nel senso che io venivo definito il cantante dei poveri che racconta sentimenti. Solo perché ho interpretato canzoni della sceneggiata che erano appannaggio di Mario Merola e Pino Mauro i quali cantavano pezzi della malavita, allora forse qualcuno ha fatto questa insinuazione. Ma io mi sono sempre tenuto estraneo da questi ambienti e sono stato semmai più vittima di certe dinamiche. Dopo il successo
mi trasferì a Roma. E comunque io vivevo nelle zone dove c’era la criminalità ma la malavita c’è sempre stata dappertutto e non solo a Napoli».

E’ vero che Miles Davis era un suo fan?
«Sì e non è una leggenda metropolitana. Lo dichiarò in una conferenza stampa. Quando mi portarono il giornale, rimasi sorpreso perché non sapevo nemmeno chi fosse Miles Davis. Cominciarono a chiamarmi giornalisti di tutto il mondo che pensavano che parlassi inglese ma io a stento parlavo italiano».

Lo ha mai incontrato?
«No ma con me ha suonato uno dei suoi più cari amici: Billy Preston. E proprio Billy mi raccontava che quando Miles organizzava le feste a casa sua, metteva le mie canzoni…».

Poi ad un certo punto si è messo a studiare, c’è stata la cosiddetta svolta sociale e etnica che l’ha portata ad esplorare nuove forme musicali…
«Ad un certo punto sono riuscito a smentire tutti i critici. Come dire che s’è girata la frittata. Quelli che mi denigravano nei primi anni della mia carriera, sono diventati miei primi fan perché hanno capito che io avevo pagato troppo per essere quello che ero. Oggi parlano di me come un bravo autore. Diciamo che una parte della critica me l’ha fatta pagare ma poi mi ha anche riscoperto e sono felice per questo. Non amo in genere le persone che hanno i preconcetti. Poi diciamocela tutta: c’era anche una parte di Napoli che mi odiava e mi disprezzava. Al sud siamo fatti così. C’è stato di recente la scoperta dei neomelodici che sono stati decantati e spremuti ma oggi vedo che non c’è più così tanta attenzione nei loro riguardi…».

Oggi lei è stato molto rivalutato come artista…
«Il fenomeno Nino D’Angelo è stato riconsiderato perché probabilmente mi sono evoluto. Un tempo davanti alla mia musica la gente storceva il naso, oggi no. Molti dicono che io abbia talento. Forse. Sono stato felice di avere vinto un David di Donatello come miglior musicista e un Nastro d’argento per la migliore musica per il film “Tano da morire”. Queste sono soddisfazioni. Insomma da quel momento in poi non ero solo un caschetto giallo che faticava a mettere bene i congiuntivi ma aveva anche una testolina pensante».

Quando si parla di Napoli e della sua musica vengono in mente i nomi di Pino Daniele, Gigi D’Alessio, Edoardo ed Eugenio Bennato, Enzo Gragnaniello, Roberto Murolo, Sergio Bruni. Quali sono stati i rapporti con loro?
«Pino Daniele che considero la massima espressione della musica napoletana negli ultimi cinquant’anni, mi stimava molto. Un giorno mi portò a casa sua a Formia dove c’era la sorella che era una mia fan e lui le disse: «Vedi chi ti ho portato qui: Nino D’Angelo!”. La sua stima mi ha dato forza. Gigi D’Alessio è subentrato quando mi ero allontanato dalla musica per via di una forte depressione dovuta alla morte dei miei genitori. E poi vivevo un momento mio delicato anche professionalmente perché volevo allargarmi un po’ musicalmente. Gigi ha preso quello spazio che il Nino D’Angelo prima maniera aveva lasciato. Lui è stato molto bravo ed è un professionista. Verso i fratelli Bennato nutro una profonda stima. Gragnaniello, James Senese sono dei grandi. La faccia della canzone napoletana, invece, appartiene a Roberto Murolo, Sergio Bruni. Mario Merola è la massima espressione della sceneggiata».

E’ vero che, grazie ad una sua canzone, una ragazza si è svegliata dal coma?
«Sì è una ragazza che si svegliò con il brano “Pronto si tu” e infatti, in ogni mio concerto a cui lei partecipa, alla fine la invito sul palco e le dedico questa canzone. La cantiamo insieme. Invece venti anni fa un ragazzo di Genova ebbe un grave incidente con il motorino mentre veniva al mio concerto e andò in coma. Si svegliò dal coma con la canzone che stava ascoltando con le cuffie nell’istante in cui cadde dal motorino».

Ha inventato un genere per poi cambiare ed evolversi. L’unico punto fermo è la sua famiglia. E, in particolare, sua moglie…
«Ho conosciuto Annamaria quando lei aveva quasi dodici anni e io stavo per diventare maggiorenne. La conobbi a casa di una mia ex. Venni colpito perché Annamaria, nonostante fosse piccola, già preparava il caffè, faceva i mestieri come un’adulta. Tra me e me pensai che sarebbe stata lei la donna della mia vita e la madre dei miei figli. Così è stato. Lasciai la mia ex che era una ragazza troppo viziata e mi fidanzai con quella “bambina”. Ci fu la classica fuitina. A quindici anni lei rimase incinta e nel 1979 nacque il nostro primogenito Tony. Stiamo da quaranta anni insieme e non la cambierei con nessun’altra donna al mondo. E’ sempre stata una ragazza più matura della sua età».

E’ vero che apprese della nascita del suo secondo figlio dal telegiornale di Rai3?
«Stavo vedendo la partita Italia-Portogallo quando all’improvviso dal telegiornale seppi che era nato Vincenzo che attualmente fa il giornalista per la Gazzetta dello Sport. “Nino D’Angelo diventa papà per la seconda volta” diceva lo speaker ma io, in realtà, non sapevo che mia moglie era stata portata in ospedale».

Il successo improvviso puo’ stravolgere la vita di un artista. A lei è successo?
«Sì ma ho cercato sempre di rimanere con i piedi a terra. Nel mio periodo di massimo successo ero corteggiassimo e mi sono sempre piaciute le donne ma per me Annamaria è stata sempre il mio punto fermo. Io sto bene solo quando sto con i miei figli, i miei tre nipotini, con zia Carmela e i miei fratelli. Non ho mai pensato di frequentare persone che hanno case a Monte Carlo o barche immense. Ho bisogno dei miei affetti. Vivo bene nella mia normalità e semplicità».

Una curiosità: avrà guadagnato tantissimi soldi. Come li spendeva all’inizio?
«All’inizio non me ne accorgevo nemmeno. Per me era molto più importante il successo, la popolarità. Ero un ricco tra i poveri. Mia madre aveva il terrore che potessi montarmi la testa e spenderli senza criterio. Un giorno arrivai a casa e le consegnai le chiavi della casa di Casoria. Fu un momento indimenticabile. Ai miei genitori devo tutto. Mammà mi diceva sempre che nella vita ciò che conta sono gli affetti e la famiglia. Io ero il primo di sei fratelli e tutti siamo cresciuti con l’idea di doverci prendere un diploma e aiutare la baracca cioè la famiglia».

Nino D’angelo e il calcio. E a pensare che da bambino sognava di diventare un asso dello stadio San Paolo…
«Da bambino amavo giocare a calcio e cantare. Poi mi è andata bene nella musica e meno male. I miei idoli sono stati Altafini, Barison, Clerici, Maradona. Oggi Mertens, Insigne. Lo è stato anche Higuain prima che se ne andasse…».

Se Gomorra lo avessero girato trent’anni fa, avrebbero usato le sue canzoni come colonna sonora?
«Gomorra l’hanno inventata le canzoni napoletane che interpretavano Mario Merola e Mario Trevi. Le canzoni di “Malavita” sono state un successo negli anni Settanta. Ci vorrebbero cento Roberto Saviano ma ci vorrebbe anche qualcuno che valorizzasse le risorse di Napoli: il mare, i monumenti, i palazzi, le tradizioni, la cucina. Insomma, Napoli non è solo male e camorra».

Cosa pensa dei talent? Le hanno mai proposto di fare un talent?
«Tempo fa mi avevano proposto un progetto sui neomelodici che è poi saltato. In tutta onesta, l’arte non è un gioco. Il padre dei reality e dei talent è solo uno: il Festival di Sanremo. Quando partecipavo al Festival, soprattutto all’inizio della mia carriera, alla gente, più che le mie canzoni, interessava il mio look, se portavo il “corniciello”, che slip o vestiti indossavo. Se non è reality questo?».

A cosa sta lavorando Nino?
«Al “Concerto 6.0”. Con questo progetto voglio arrivare ai giovani di oggi. Voglio la raccontare la storia di uno che era nato per non essere e invece lo è stato. Nella vita ci vuole fortuna e talento. Per arrivare al successo ci vuole tantissima passione. Sto lavorando al triplo cd che conterrà brani miei storici ma anche inediti e, soprattutto, i maggiori insuccessi. Questi ultimi sono stati molto apprezzati dagli intellettuali perciò meritano una rivisitazione. La verità è che quando i critici mi stroncavano vendevo moltissimi dischi, da quando sono stato riabilitato dagli intellettuali, non ho più ripetuto quei numeri (sorride, ndr)».

Nino, una curiosità: in casa lei che canta?
«Quando i miei figli erano ragazzini, ero costretto a sentire e cantare a squarciagola gli U2. Quando però mi faccio la barba, intono sempre “Reginella”. Alla mia maniera cioè faccia corrugata, narici allargate, occhi semichiusi e mentre canto penso pure a non tagliarmi però…».

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