Pink Floyd: un tuffo nello scrigno dei segreti

Dagli esordi con Syd Barrett all’eredità dei nostri giorni: la storia della band inglese che ha cambiato per sempre le nostre vite

Pink Floyd  Credit: © Facebook
12 Settembre 2017 alle 15:19

Il bello, anzi il sublime, dei Pink Floyd (di cui lo scorso agosto sono caduti i primi 50 anni dall’uscita del loro album di debutto The Piper At The Gates Of Dawn) è che tutti abbiamo il nostro “periodo Floyd” preferito. E di solito questo, per una band, corrisponde sempre ad un attestato di immortalità. Un sigillo di riconoscenza. Una corrispondenza intima tra musicista ed ascoltatore.

Una sorpresa per tutti i fan

Dal 12 settembre in edicola con Tv Sorrisi e Canzoni la collana dedicata ai Pink Floyd: la discografia completa aggiornata, con incluso The Endless River, l'album uscito nel 2014. L'ultima uscita della collana sarà il doppio dvd live Pulse, mentre il primo album sarà The Dark Side Of The Moon, veicolato insieme al cofanetto raccoglitore in omaggio.

La storia

I Pink Floyd si formano tra i fumi dell’underground londinese nel 1965, l’anno in cui si sente parlare con sempre più insistenza di un lontano paese asiatico chiamato Vietnam. C’è una sorta di tensione nell’aria, qualcosa sta volgendo verso il peggio nei vivaci anni ’60 e tra i quattro Floyd originali (Syd Barrett, Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright) solo Rick è nato in un sobborgo di Londra. Gli altri si trovano là per studiare architettura, in un prestigioso college (il London Polytechnic di Regent Street), ma saranno altre le “costruzioni” e i “muri” a cui si dedicheranno nel corso della loro impeccabile carriera.

Il genio all’inizio è Barrett, viso da modello e pittore talentuoso che ha una strana visione dell’esistenza: gli piace abbinare voli pindarici nello spazio a distorte visioni infantili. Droghe a parte (il tipo è un assiduo consumatore di LSD), Syd ama vivere in un mondo tutto suo e lanciarsi in bizzarri giochi di parole. Un giorno mischia i nomi di due bluesman sconosciuti (Pink Anderson e Floyd Council) che nemmeno i più esperti studiosi di musica afroamericana hanno mai ascoltato e passa direttamente alla Storia. Se a questo aggiungete che i primi Pink Floyd erano visti come un gruppo “pop” (Barrett scrisse singoli di successo come Arnold Layne e See Emily Play) e ci andavano giù pesante con gli show ad alto contenuto di luci abbaglianti (un altro pallino di Syd), capirete perché, senza di lui, ora non staremmo qui a parlarne.

The Piper At The Gates Of Dawn

Il primo disco, The Piper At The Gates Of Dawn, è Barrett purissimo, follemente diviso tra escapismo (il viaggio verso l’ignoto di Interstellar Overdrive che anticipa di circa un anno lo Stanley Kubrick di 2001: Odissea nello Spazio) e filastrocche da Old England. Ma ovviamente non può durare. Dopo un breve tour americano, Syd cede ai suoi demoni mentali e stavolta nei Floyd ci entra sul serio un modello (nel senso che campa posando per campagne pubblicitarie di moda maschile). Il suo nome è David John Gilmour e il tempo lo consacrerà a ragione come uno dei chitarristi più celebrati e amati di sempre.

Cuore blues, imponente, straripante, ultra-melodico: Gilmour non solo suona, è semplicemente perfetto. L’ideale per non andare d’accordo con un bassista poco dotato tecnicamente, pessimista, bruttino, ma dal cinismo freddo come un bisturi e capace di vedere ben al di là di un naso - come dire? - importante. George Roger Waters (questo il suo nome completo) è un uomo con una missione. Diciamo che, nella sua anima, ha questa sensazionale capacità di prevedere gli anni ’70. Anni difficili, violenti, brillantemente intellettuali. I Floyd ci sbarcano dentro con ancora la nomea di “gruppo di culto”, adorato dalla critica e dai registi impegnati (tra cui Michelangelo Antonioni), con dischi complessi e concerti incredibili alle spalle, compreso quello nella vastità silenziosa di Pompei. Hanno addirittura messo una placida mucca in copertina, ma il colpo in canna sta ancora lì, pronto ad essere detonato. Ci riusciranno infine nel marzo del 1973 facendosi un bel viaggetto di sola andata nella più spudorata alienazione umana.

The dark side of the moon

Su The Dark Side Of The Moon ormai si è detto tutto il possibile e le classifiche non l’hanno mai rinnegato (al momento dovrebbe aver venduto qualcosa come 45 milioni di copie nel mondo). Si tratta di un album ineccepibile in grado di unire bellissime canzoni (Time, Money, Us and Them, Brain Damage ecc.), un messaggio dominante (la vita ci rende sempre schiavi di qualcosa), una produzione da urlo (lo zampino è di Alan Parsons) ed una grafica perfetta curata da Storm Thorgerson. Una vacca sacra, insomma. Oltreché un poetico crocevia tra eros e morte (The Great Gig In The Sky), tra mondo che ci respinge e noi che, poco alla volta, impazziamo. I Pink Floyd, artisticamente parlando, non muoiono di certo con questo capolavoro incommensurabile, ma ne avvertiranno per sempre il suo peso incombente, royalties comprese. La sua ombra oscura.

Di conseguenza, dal 1975 in poi, tutto si incupisce nell’orbita floydiana. Postumo di una visione sociologica sempre di più in mano a Waters che inasprirà il concetto con i due successivi colpi da maestro: Wish You Were Here (il disco dell’innocenza perduta, dedicato a Barrett e contenente l’elegia commovente di Shine On You Crazy Diamond) ed Animals, un album densissimo a livello di suono e perfino “punk” nel suo messaggio oltremodo inacidito verso la società capitalista.

Roger nel frattempo si è tramutato in un dittatore del mixer e, se Gilmour lo sopporta ancora, è solo perché i Pink Floyd stanno per realizzare l’ultimo capolavoro del decennio: il doppio The Wall (1979) di cui servirebbe un articolo a parte per sviscerarlo tutto. Sappiate solo che al suo autore principale non sono bastate 26 canzoni, un film di Alan Parker e uno storico concerto tedesco (andato in scena nel luglio del 1990 per celebrare la caduta del Muro di Berlino) per uscire dalla sua più intensa ossessione. Quella che vede il vero nemico, anche se provocato dall’esterno, sempre dentro di noi.

Gli anni '80

Gli anni ’80 dei Floyd sono tempi soprattutto processuali. Waters ha “usato” la band nel 1983 per esorcizzare lo spirito del padre Eric Fletcher caduto nella Seconda Guerra Mondiale (l’insostenibile The Final Cut) e l’ha addirittura mollata per lanciarsi in un’avventura solista che, a causa dei suoi lunghissimi periodi di pausa, è divenuta col tempo una sorta di mausoleo inaccessibile e riapertosi proprio nel 2017 con l’uscita di Is This the Life We Really Want?, quello della causa legale col nostro Emilio Isgrò.

Ma torniamo alla storia principale. I due superstiti (Gilmour e Mason) vincono attorno al 1986 la lunga battaglia burocratica contro il loro ex bassista, riaccolgono il maltrattato Wright (ridimensionato fin da The Wall) e giocano volontariamente la carta della lesa maestà incidendo musica senza un indignato (eufemismo) Roger. La faida durerà fino al 2005 (riconciliazione improvvisa al Live Aid di Londra), ma intanto nel 1987 esce un opinabile sussidiario floydiano intitolato A Momentary Lapse Of Reason che, pur non facendo gridare al miracolo, terrà il gruppo quasi tre anni in tour. E tra le centinaia di concerti spicca senz’altro quello da “fine del mondo scongiurata” andato in scena a Venezia il fatidico 15 luglio del 1989. Un evento rock che fa ancora discutere in Laguna. Anche se non si fece male nessuno.

Gli anni '90

Nel 1994, infine, ancora un disco, l’ultimo con la band ancora in attività: il magnifico The Division Bell. E stavolta, oltre all’ennesimo giro per gli stadi d’America ed Europa, sbucano di nuovo le canzoni che fanno sciogliere il cuore. Una su tutte è Coming Back To Life dove un allora 48enne Gilmour fa a patti con la sua parabola non immune da dolori donandoci un ennesimo assolo da antologia. Niente di paragonabile al cavallo di battaglia liberato in Comfortably Numb nel ‘79, ma la classe anche qui regna sovrana.

Insomma, con le sculture misteriose di The Division Bell, i Nostri chiudono la loro epopea quasi rasserenati e perfino con un accenno di sorriso sulle labbra. Per la cronaca Barrett morirà da recluso nel 2006. Wright ci abbandonerà tristemente nel settembre del 2008 portandosi via qualsiasi ipotesi di reunion concepibile. A fine estate del 2017 Waters e Gilmour si guardano ancora con eloquente sospetto mente Mason veste i panni dell’ambasciatore pacifico e possibilista. Il gruppo ormai non esiste più e, come canta il buon David in Sorrow, “il tempo passa e il fiume scorre”. Nell’eternità di una grandezza, quella sì, tipicamente floydiana.

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