Enrico Lucci: «Faccio la iena con metodo, e ve lo spiego»

Molto schivo e riservato, il decano fra gli inviati in nero di Italia 1 racconta come lavora, fra tecniche collaudate, provocazioni e uno stile che definisce «alla Tenente Colombo»

L'uomo in onda sin dalla prima puntata del programma di Davide Parenti
26 Gennaio 2015 alle 12:59

Da sempre, il valore aggiunto de «Le iene» si chiama Enrico Lucci, 50 anni, da Velletri. Fustigatore, finto ingenuo al curaro e sfottitore seriale televisivo. Parla raramente. Per noi ha fatto un’eccezione.

Lucci, da quanto tempo fa la iena?
«18 anni. Sono l’unico tra i fondatori rimasto in video».

Perché così tanto?
«Il programma mi calza a pennello. È esattamente quel che volevo fare. Mi pagano per cose che farei o faccio anche nella vita».

Come definirebbe il suo stile?
«Cazzeggio impegnato o impegno cazzaro».

18 anni sono tanti. Segni di stanchezza?
«Avoja… Parecchi: c’è il peso del tempo, un po’ di routine. Negli ultimi quattro anni mi ha salvato un giovane autore che mi affianca, Umberto Alezio, che mi ha dato nuovi stimoli. E poi, essendo pigro, mi recupera a casa, o al bar dove vado a fumare o a prendere la tisana».

Quale bar frequenta?
«Non lo dico perché poi ci viene chi me vuole menà. L’importante è stare a Roma. La adoro. È colori, tramonti, bellezza ovunque».

La Grande Bellezza...
«Quella no. Vediamo bene dove ci ha portato».

Come nasce un suo servizio?
«Le fonti sono le più diverse: la cronaca, una proposta che viene da altri, leggo e mi viene un’idea. E poi ci sono i miei appuntamenti fissi: la prima della Scala, il raduno dei Giovani imprenditori a Capri… Ma in genere è un lavoro collettivo: non le dico le urla al telefono con l’autore Davide Parenti…».

Quindi non fila sempre tutto liscio fra voi?
«E come potrebbe? In 18 anni, più di un matrimonio, avremo litigato furiosamente 200 volte. Ma alla fine si trova sempre un compromesso positivo. Ora ci scontriamo meno: io perderei la dentiera, e a lui verrebbe l’infarto. Colpa anche della routine».

Chi le piace, fra le nuove leve?
«Nadia Toffa sta lavorando bene. Da noi funziona il mix di caratteri. In genere amo quelli che si sono affermati con uno stile personale, come Pelazza, Roma o Casciari».

C’è qualche servizio di cui si vergogna?
«No. Posso averne fatti alcuni sbagliati perché non funzionavano, ma alla base c’erano sempre onestà e massimo candore».

Quante querele ha preso?
«Alcune, ma ho sempre vinto, grazie anche al nostro avvocato, Stefano Toniolo».

Analizziamo il «Metodo Lucci»: lei dice in faccia alle sue vittime le cose più agghiaccianti. La verità spiattellata. Stupisce, sorpassa a destra…
«Sì. Ma che cosa mi muove, sempre? La voglia di raccontare la società attuale. A volte non devi manco parlare: ti basta tenere il microfono e questi fanno tutto da soli. Svelando un mondo».

Conta molto anche il montaggio…
«Certo, da noi è fondamentale. Ma serve a condensare, valorizzare, tagliare le cose in eccesso, velocizzare il prodotto. Non ho mai modificato niente, ovvio».

Ci sono tanti esibizionisti?
«Alcuni pur di apparire in tv vengono a cercarmi e sarebbero disposti a tutto. Anche a prendersi secchiate di guano in faccia. Altri scappano a gambe levate. Altri accettano la presa in giro, ma vorrebbero fare bella figura. Altri infine si accorgono della figura fatta solo quando va in onda il servizio. Oggi è diventato difficilissimo lavorare».

Perché?
«Colpa anche dei social: una volta se andavi in tv e dicevi scemate al massimo ti notava il vicino e stava zitto. Oggi, se ci vai, su Twitter, che è pieno di rancorosi e invasati che non aspettano altro, ti ricoprono di 20 mila insulti. E la gente ha paura a parlare. Era più facile agli inizi, quando non mi conosceva nessuno…».

Poi ci sono i body guard che la allontanano bruscamente…
«Anche lì le cose sono cambiate: a volte persino questi soggetti vogliono apparire, ti allontanano con delicatezza, per non far fare brutta figura al capo, e ci tengono a farsi riprendere. Quando lo noto, sparisco subito».

E le piace molto fare il finto tonto.
«Lo chiamo “Metodo tenente Colombo”: arriva, fa il deficiente, urta un vaso di fiori, e alla fine piazza la domanda che ti ammazza. In genere cerco di raccontare così, sottraendomi il più possibile. E partendo dalla mia visione comunista».

Un’altra sua tecnica è la ripetizione ossessiva di una frase o una domanda. Ricordo uno storico blitz alla sensitiva Rosemary Altea, ripetendole all’infinito: «Ma si rende conto?».
«Sì, lo stillicidio verbale fa parte della mia malattia mentale… Il problema è che non puoi neppure accettare come interlocutore una persona del genere».

Parliamo delle volte in cui fa puro show, come nei casi che accennava: la prima alla Scala, i raduni degli imprenditori…
«Mi piace mescolare tutto, e lì entro in gioco con la mia pura stupidità, con il nonsense che entra nella realtà. Con la goliardia. Porto in società le fregnacce da bar».

Dice anche cose irriferibili, parliamoci chiaro.
«Certo, cose che non direi mai nella vita. Ma in quel circo divento clown io per primo. È chiaro che sto dicendo quel che non va detto. È un modo di fare satira in modo grottesco e volgare. Mi piacerebbe che il Ministro alla quale dico “Sei bòna” si girasse e mi desse un calcio nel sedere. Perché è giusto così. Poi magari queste cose divertono solo me e pochi amici di Ariccia».

Il servizio del quale va più fiero.
«Nel 2002, quando feci rinnegare Musssolini a Fini, allora potentissimo. Il mio fiore all’occhiello».

Come si immagina fra 10 anni?
«Ancora qualche servizietto per “Le iene”, ogni tanto. E poi d’estate a Roma e d’inverno a Cuba».

«Le iene» pagano bene?
«A me sì, decisamente. Dalle 400 mila lire lorde del primo servizio a oggi, ho fatto molti passi avanti. Ma è solo il mio valore di mercato, intendiamoci. E poi i soldi mica mi fanno schifo. Anzi. I soldi ti servono a non pensare più ai soldi».

A cena con chi va?
«Non vado alle cene, soprattutto a quelle di giornalisti, che in genere si vantano in modo muscolare di poco dimostrabili imprese. Sto con le solite tre persone con le quali amo stare. Si legga “La filosofia del rifiuto”, di Ennio Flaiano, sono 20 righe. Io sono tutto lì. Chiamano per qualunque cosa e io: preferirei di no».

Intende le domande telefoniche dei colleghi?
«Massì, ti chiamano per dire: sto facendo un giro di telefonate. Sei vegano? Che cosa ne pensi dei divani a righe? Ma che te frega? Se ne andasseràff... E c’è anche chi si sente in dovere di rispondere».

Rifiuta, ma quest’intervista l’ha accettata…
«Lo faccio molto raramente, ma è la vanità. Tutti siamo vanitosi, c’è poco da fare. L’intervista è goduria pura per l’ego. È qualcuno che si occupa di te, magari convinto che tu abbia persino qualcosa di interessante da dire».

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