Etiopia: il reportage di «Donnavventura»

La nostra inviata Vanessa Villa ci racconta quanto visto e vissuto nello stato africano durante la sua avventura

21 Novembre 2017 alle 17:55

Mistica. Non convenzionale. Lontana. Unica. Difficile. Estrema.
Una terra dalla forte identità e che non accetta compromessi. Un luogo dove si “crede”, dove la spiritualità è così radicata da sentirne la vibrazione sulla pelle.
Un popolo che conosce bene le arti della musica e della danza, che ha un proprio alfabeto e più di settanta lingue.

Buongiorno Ethiopia. Ti vedo, ti ammiro, ti respiro, ti conosco.

Fu un arrivo d’impatto. L’altitudine della capitale Addis Abeba di 2400 metri circa sopra il livello del mare mi mise subito alla prova. Questa è una terra di persone resistenti e me ne sono resa conto fin dagli inizi. Per prima cosa andammo al mercato, un tripudio di colori, odori e sensazioni.

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Macchie di colori vivi
nel frenetico mercato.
Incontro occhi enormi e sinceri
e sfoglio storie di uomini autentici.
(10-09 Vanessa)

Sguardi intensi e sinceri s’incrociavano col mio, profano e straniero. Incuriosita da quella moltitudine di storie umane, mi addentrai con il mio ormai inseparabile “osmo”, cercando avidamente di catturare nel mio obiettivo più cose possibili. Tornai in hotel ricca di volti e d’immagini, più felice che mai.
La messa del giorno seguente fu la conferma di quella sensazione di pienezza. C’erano così tante persone in preghiera quella mattina da occupare tutta la chiesa. Erano tutti a pregare all’esterno e le donne avevano degli abiti e copricapo di puro cotone bianco. Sembrava di essere in mezzo a degli angeli, chiusi gli occhi e mi sentii per un istante in Paradiso. Al tramonto passammo con il nostro fuoristrada Donnavventura nelle stradine dei sobborghi di Addis Abeba e lì mi emozionai di nuovo.

Vicoli intrecciati
di povertà e miseria
in festa gioiscono,
tra i coriandoli
di panni stesi.
(10-10 Vanessa)

Era il quadro di un pittore, una tavolozza di vite vere.
L’indomani eravamo in volo verso la Valle dell’Omo, a sud del Paese, nel polmone verde d’Africa. Uscii dall’aeromobile e vidi una distesa di alberi enormi e di un verde brillante. Mi avrebbe aspettato un lungo viaggio con i nostri fuoristrada verso il lodge. La luce del tramonto rese tutto ancor più suggestivo. Era un susseguirsi di tonalità di verdi, dal più chiaro al più scuro, dal più lucente al più caldo. Le donne con i fasci di erba o legna sulla schiena, i bambini che ci sorridevano sul ciglio della strada o che improvvisavano un balletto in stile etiopico per farsi notare. Sembrava di attraversare piste del passato e che il tempo si fosse fermato a non so quanti anni fa. Era una moltitudine di capanne di legno e paglia, un susseguirsi di pastori con le loro mandrie di capre, asini e mucche lungo la strada. C’erano agricoltori che lavoravano la terra. E poi le enormi piantagioni di cotone, banane, moringa, canapa e alberi di ogni genere, che solo nei libri o film avevo visto prima. Finché arrivai nel nostro eco-logde e distrutta dopo il lavoro notturno di produzione, mi addormentai nell’umida ma accogliente tenda.

I Mursi furono un incontro incredibile. Vivere un’esperienza a contatto con quella gente, così primordiale e così attaccata alla terra, è stato davvero illuminante. Le donne, con quegli enormi piattelli labiali e il seno scoperto erano forti, sicure e fiere. Erano elegantissime con quegli ornamenti di piume, conchiglie di fiume, ossa e pelli animali. Fu mistico entrare nel loro villaggio e avere la possibilità di partecipare alla loro quotidianità, così distante dalla nostra. Alcuni uomini della comunità, irritati dalla nostra presenza, si mostrarono un po’ contrariati, finché uno di loro si avvicinò e mi prese di forza per un braccio. Fu strano sentire quell’impeto aggressivo e quasi animalesco nei miei confronti, ma in fondo lo apprezzai perché capii che quello era il suo unico modo di comunicare e dovevo accettarlo.
Tornammo lungo quel meraviglioso percorso verso il lodge e mi persi nelle montagne verdi, nel lago, nei piccoli e nei terrazzamenti.
Questa terra mi parlava chiaramente e il suo nome era Verità.

Il Sud era stato scoperto oramai. Bisognava risalire verso il Nord del Paese, una delle zone più estreme del mondo.

La prima tappa fu Lalibela.
Presepe di vite. Silenzioso tempio sacro.
I nostri fuoristrada percorrevano una strada diversa questa volta.
Uomini dagli enormi turbanti bianchi sul capo camminavano sul ciglio della via con bastoni e tessuti di cotone ripiegati sul davanti e sulla schiena.
Rupi ai lati dell’irto cammino. L’arido paesaggio di arbusti bassi e secchi sembrava ripiegato su se stesso, come a inginocchiarsi a Dio.
Eravamo arrivati a Nord dell’Etiopia, nella biblica Lalibela.
Andammo subito alla scoperta della sacralità della città e non fu difficile rendersi subito conto della spiritualità e forza di questo luogo. I sorrisi della gente erano veri, la loro gentilezza e cordialità erano molto diversi da quelli incontrati a Sud del Paese. Dietro uno sguardo sofferente, non c’era mai richiesta di denaro, poiché loro avevano una cosa che li salvava: la fede.

Finalmente arrivammo alle chiese rupestri, monolitiche e semi-monolitiche. Quelle chiese erano state create direttamente sulla pietra viva delle montagne. Erano parte di quelle montagne. Anzi erano quelle montagne. Andammo alla scoperta di tutte e dodici le chiese, collegate fra loro tramite tunnel esterni e interni, a sottolineare l’unità del tutto, a rimarcare il passaggio fisico e spirituale dall’ombra degli inferi alla luce divina. Le chiese erano così belle da togliere il fiato. Completamente scavate sui monti, talvolta a forma di croce, si entrava dall’ingresso posto a Ovest, con sguardo rivolto verso il tabernacolo a Est. Tutto era intriso di significato, dalle facciate agli interni. Vi erano dipinti, bassorilievi, affreschi e grandi tappeti a esaltare ancor di più quello spettacolo sacro risalente circa al XII secolo. Questa città, infatti, prende il nome da Gebre Mesquel Lalibela, sovrano vissuto nel 1300 circa.

Cercai di raccogliere tutta la luce di Lalibela nei miei video, provai a non perdermi neanche un passaggio sotterraneo, un crocefisso né un volto rugoso.
Un forte dolore allo stomaco cresceva, non sapevo identificarne la provenienza, quando poi nel pomeriggio del giorno successivo mi vidi costretta a rimanere a letto. Ebbi la febbre alta, deliravo, non riuscivo a dormire. Lo stomaco esplodeva dal bruciore, era come se qualcuno mi stesse prendendo a pugni ed io ero lì, inerme senza nemmeno potermi difendere a colpi di karate. Probabilmente stavo espellendo tutte le tossine accumulate in quarantaquattro giorni di spedizione. Ne approfittai per prendermi del tempo per me, per scrivere qualche poesia, per meditare sulla fortuna di poter vivere questa esperienza da Donnavventura e certamente per riposare e recuperare le energie.
Il giorno seguente prendemmo un volo di nuovo verso Nord. Atterrammo ad Axum, antica capitale storica del Paese. Stavo meglio fisicamente, ma mi sentivo ancora molto debole. Mi girava la testa e mi faceva ancora male lo stomaco. Il capo spedizione decise di portarmi in una clinica locale per fare il prelievo del sangue per verificare il mio stato e soprattutto per capire se avevo contratto qualche malattia come malaria o tifo. La clinica consisteva in un verde giardinetto interno, con i muri pitturati di bianco e azzurro. C’erano tante persone e tutti mi guardavano come fossi una strana creatura, con quel cappello geo e le scarpe bianche.
Dopo un po’ di tempo arrivò anche il mio turno ed entrai in una delle mille stanzette a fare la visita del medico e poi il prelievo. Attesi il responso delle analisi. In fondo non potevo fare altro. Mi guardai attorno e vidi tutte quelle persone, così diverse da me, così stupite nel vedermi lì con loro, con gli stessi dubbi e le stesse paure. In fondo non eravamo poi così distanti.

Il capo spedizione arrivò al tavolo e abbassò lo sguardo.
Con un sospiro alzò gli occhi e si aprì in un grande sorriso. Tutte scoppiammo in una risata di gioia e festeggiammo cenando sereni.
L’indomani ci aspettava il lungo viaggio in macchina verso la regione del Tigray, ancora più a Nord, al confine con la depressione della Dancalia.
Stabilimmo in nostro campo base vicino alle maestose montagne Gheralta, le grandi montagne, dove si trovano eremiti provenienti da tutto il mondo, alla ricerca dell’espiazione dei loro peccati.

Quei monti erano l’ultimo ostacolo che ci divideva dalla tanto desiderata Dancalia.
E noi ci eravamo arrivate. Al tramonto, lì davanti a quei giganti di pietra, ci guardammo.
Avevamo tutte lo stesso sguardo, di chi non aspetta altro che vedere cosa sarebbe successo il giorno dopo.
E pensammo: domani Dancalia.

Arrivò anche quel giorno.

Viaggio nel cuore della Terra.
Discesa verso l’anima del Pianeta.

Ostica. Aspra. Afosa.
Tenta di schiacciarti
nella morsa
di un calore inaffrontabile.
Forno impossibile
ti spaventa,
nel tentativo di proteggere
la sua parte più indifesa.
(20/10 Dancalia, Vanessa)

Cominciò la nostra discesa partendo dai circa 2500 metri di altitudine della regione del Tigray, fino ai -158 metri sotto il livello del mare. Ogni tanto era d’obbligo una pausa per dare la possibilità alla pressione sanguigna di regolarsi con quella atmosferica. Era come scendere verso un luogo mitologico, ne avevamo sentito parlare così tanto che sembrava quasi appartenere solo alla storia dei grandi eroi. Solo che quel giorno non c’erano eroi. C’eravamo solo noi, quattro fuoristrada di Donnevventura, pronte e attrezzate per quell’incredibile esperienza che avrebbero affrontato.
Man mano che scendevamo verso la depressione, mi facevo sempre più concentrata, ero in meditazione. Sapevo che avrei fatto un incontro unico. Sapevo quanto sarebbe stata dura affrontare quella terra. Sapevo che avrei dovuto soffrire un po’ per meritarmi quell’incontro.

Dopo ore di viaggio, arrivammo in un villaggetto piccolo e povero. Lì avremmo stabilito il nostro campo base. Quella sarebbe stata la nostra casa per qualche giorno. Nel luogo più ostile che abbia mai incontrato. Erano le 11:00 di mattina e la temperatura era di circa 50 gradi. Il caldo era così soffocante da sentir mancare l’aria.
Eravamo arrivate in Dancalia.
Tra capanne di paglia dell’etnia degli Afar, bambini, capre e sporcizia, facemmo il nostro bivacco e ci attrezzammo al meglio per l’uscita del pomeriggio. Nel campo non c’era praticamente nulla. Mancavano acqua e luce corrente. Per la doccia c’erano a disposizione solo tre piccole secchiate d’acqua. Il calore era così forte da non riuscire quasi a fare le cose più semplici, ma non c’era tempo da perdere e ci aspettava un luogo inimmaginabile: il Dallol.
A bordo dei nostri fuoristrada cominciammo la nostra grande avventura, attraversando prima la piana del sale, poi avvistando da lontano un cumulo di terra marrone bruciato, quasi fosse un miraggio. Ci fermammo e proseguimmo a piedi verso una grande salita di rocce bollenti.
La pressione sanguigna diminuiva sempre di più, il caldo era insopportabile, le attrezzature video erano pesanti come massi, i nostri volti si facevano sempre più rossi. Ad un tratto si aprì di fronte a noi lo scenario più sbalorditivo che avessi mai visto.
Eravamo a meno 150 metri sotto il livello del mare circa, in uno dei punti più fragili del Pianeta, dove a pochi chilometri in profondità rispetto a noi, borbottava il mantello terrestre.
Per la prima volta vidi una Terra vulnerabile, fragile e viva più che mai. Ed era per quello che avevamo trovato una ostilità tale, era solo un modo di difendersi dagli intrusi, solo un modo di proteggersi.
Lo scenario era apocalittico. Una cerimonia di colori. Una celebrazione di ocra sulfureo, verde giada, marrone bruciato, arancio brillante e bianco puro.

Primavera in fiore.
Cesto di frutta fresca.
Tavolozza geologica.
Cerimonia terrestre.
(20/10 Dancalia, Vanessa)

Il caldo sparì improvvisamente e mi ritrovai di fronte al più incredibile, maestoso e stupefacente fenomeno che abbia mai incontrato.
Era un concerto di zolfo e di acqua, una sinfonia perfetta di vita e fermento terrestre.
Fui grata, commossa, realmente senza parole.
Cercai di fare più immagini video possibili e di quel suolo così perfetto nella sua irregolare geometria. Fu purificante.

La sera ci aspettava il nostro bivacco, tra paglia e terra secca. Lavorammo al computer per ore chiuse nelle macchine, con quel caldo micidiale, per evitare di far entrare polvere nei dispositivi.
Quella notte dormii in un letto di paglia sotto miliardi di stelle.

L’indomani ci svegliammo tutte prima dell’alba. Ci attendeva un altro grande incontro quel giorno: la carovana dei cammelli trasportatori di sale.
Arrivammo nella piana del sale mentre il sole stava sorgendo. Lo scenario era lunare. Il terreno salino così bianco e ruvido rifletteva la calda luce dell’enorme sole che avevamo di fronte. I cammelli, con passo lento e regolare procedevano carichi di sale e in quel momento spazio e tempo si confusero e la mia anima fu libera di creare.
Scoprimmo l’arte del sale. Incontrammo gli estrattori appartenenti all’etnia dei Tigrini, gli intagliatori che invece erano Afar e dei cammellieri, perlopiù musulmani. Assistemmo al carico e scarico dei cammelli, alla fatica di quegli uomini e al peso che dovevano sopportare quegli animali. Fu un tuffo indietro nel tempo, sembrava di essere tornate indietro di non so quanti anni e sbalordita da quell’arte continuavo a montare e smontare i due Droni Phantom e i due Osmo. Era una ricerca della perfezione, della luce giusta, dell’inquadratura da non perdere.

Tornammo al campo base, contente per l’esperienza vissuta e soddisfatte delle immagini fatte.
La sera acquisii e guardai come al solito tutti i video, erano incredibili. Feci il backup sui due hardisk e tornai dalle altre Donnavventura, nei nostri giacigli di paglia, per l’ultima volta sotto le stelle della Dancalia.

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