Pippo Baudo ripercorre la sua grande carriera in tv

Gli esordi, i Festival di Sanremo, i varietà in prima serata. E da scopritore di talenti dice: «Ho un solo rimpianto: aver scartato Fiorello»

Pippo Baudo (81 anni) nel suo studio romano  Credit: © Iwan Palombi
2 Ottobre 2017 alle 17:39

«Baglioni direttore artistico? È un’ottima scelta per il Festival. L’età è giusta, di canzoni ne sa parecchio e ha una credibilità che gli aprirà tante porte. Penso che con lui Sanremo tornerà a essere il Festival della canzone e non più del superospite». Pippo Baudo è in forma smagliante. L’appuntamento, fissato allo Studio 77, sua storica base operativa in zona Prati a Roma, è per parlare della sua carriera. Ma Super Pippo non si sottrae ai commenti sull’attualità.

Per il Festival si era fatto anche il suo nome.
«Se n’era parlato e mi ha fatto piacere, ma non ho mai considerato la cosa seriamente. Non avrei accettato. L’ho già condotto 13 volte e sono state 13 edizioni con grandi ospiti e grandi canzoni. Tornare, a quest’età, sarebbe un rischio stupido. Va bene così, sono sereno, non ho rancori, ho fatto tutto. Preferisco tenermi i bei ricordi. Ho avuto la fortuna, e un pizzico di abilità, di allestire edizioni che rimarranno nella storia del Festival. Ho avuto i Duran Duran, gli Spandau Ballet, Madonna, Bruce Springsteen, Annie Lennox...».
E anche altri budget.
«Guardi che da me questi fuoriclasse sono tutti venuti senza prendere un soldo. Io, furbescamente, mettevo su “Billboard”, la più prestigiosa rivista musicale americana, una pagina pubblicitaria del “Sanremo Festival”. Come fosse la mitica Woodstock! Dopo i primi tempi le grandi case discografiche cominciarono a chiamare i loro rappresentanti in Italia per chiedere che cosa fosse questo Sanremo. Fu così che arrivarono i primi sì importanti».
La scorsa stagione ha condotto «Domenica in». Bilancio?
«Mi è piaciuta come esperienza. Avevo a disposizione un’ora e 40 minuti nella fascia “morta”, quella dopo il tg delle 15 che storicamente vede la fuga dal teleschermo. Ho fatto la mia “Domenica in” con grandi ospiti anche se non avevo budget da spendere, ma solo la mia credibilità. La ciliegina sulla torta è stata la presenza del premier Paolo Gentiloni. Siamo stati l’unica trasmissione di intrattenimento ad averlo in studio».
Sembra che quando Baudo non c’è tutti lo vogliano, quando torna s’alza il coro: «Ancora Baudo!?».
«Già, quando sono assente si avverte la mancanza, ma poi, siccome il mio peso specifico si sente e non sono un ectoplasma, scatta l’“ancora lui?”. Avveniva anche per Mike Bongiorno. Non dimentichiamoci che sono in video ininterrottamente dal ’59. La gente mi ha anche visto invecchiare. Mi tingevo i capelli, poi a un certo punto mi sono chiesto che senso avesse. Il pubblico sa che sono passati tanti anni. E poi ho visto gli americani, i grandi non si nascondono, anzi l’età diventa un bagaglio. La mia è un’età notevole, 81 anni, ma anche un sintomo di serietà. Bisogna essere più pacati».  
Sulla parete alle sue spalle c’è una vecchia targhetta di suo padre: «Giovanni Baudo, procuratore legale». Nella Sicilia degli Anni 50 per suo papà avere un figlio artista dovette essere un trauma.
«Peggio, una specie di bestemmia, una tragedia familiare in una famiglia dove, per di più, ero figlio unico. Mia madre, poi, aveva una pessima considerazione del mondo dello spettacolo. Pensava che gli uomini fossero guitti e le donne delle poco di buono. Speravano che l’università mi avrebbe riportato sulla retta via, invece dissi a papà: “Mi laureo prima del tempo e tu mi lasci andare a Roma per fare un tentativo”. Mi concesse due mesi di tempo. L’addio alla stazione di Catania fu toccante, sembravo un figlio in partenza per la guerra».
Una guerra che vinse.
«Chiesi di fare un provino alla Rai e mi candidai per tutte le categorie. Dopo due giorni mi provinò Antonello Falqui, che mi fece simulare di essere a Sanremo e di presentare Mina. Una premonizione. Mi dichiararono abile e mi consegnarono un foglio che mi certificava “di buona presenza, ottima dizione, adatto a spettacoli minori”. Il primo impegno fu “Primo piano”, sul Programma Nazionale, dove presentai Johnny Dorelli. Pensi che nei rulli di coda non avevano messo neppure il mio nome. Lo feci notare e rimediarono con una pecetta con il mio nome sovrapposto. Alla fine mi confermarono per altre sei puntate».
Si occupò anche di emigranti per il telegiornale.
«Era una rubrica: “Guida degli emigranti”. M’inviarono a visitare i nostri connazionali all’estero: Libia, Tunisia, Belgio, Svizzera. Mi calavo con loro nei pozzi dei minatori. Facevano una vita da bestie. La rubrica ebbe così tanto successo che il direttore del telegiornale, Emilio Rossi, mi offrì di diventare giornalista. Ci pensai un po’, poi rifiutai. Volevo fare il varietà».
«Pazzia» che si è rivelata saggia.
«Sì, ebbi il merito d’inventare “Settevoci” e fu la svolta. Oggi le tv vivono di format, adattano i programmi stranieri. Un’idea pessima. Allora era impensabile prendere programmi dall’estero. Io, Mike, Corrado, Tortora, avevamo inventato una via italiana alla tv. “Portobello” di Enzo Tortora fu un’idea geniale. Io ne ho fatti tanti di programmi che potrebbero essere riproposti ancora oggi: “Novecento”, “Numero Uno”, “Fantastico”, “Luna Park”, “Passo doppio”. Tutti show nati in questa stanza».
E nei quali ha scoperto decine di talenti. Ce n’è uno che si è lasciato sfuggire?
«Fiorello. E ce l’ho sulla coscienza. Gli feci un provino e lo trovai debordante. Veniva dai villaggi turistici, era abituato a sproloquiare. Dissi al regista Gino Landi che era meglio aspettare che maturasse. Ho sbagliato. Andò a fare “Karaoke” su Italia 1 ed esplose. È un vero showman. Di lui mi spiace proprio non potere dire: «L’ho inventato io».
Guarda molta tv?
«Sarebbe ridicolo se dicessi di no. In giro, però, non vedo grandi novità. Siamo andati sempre più giù per soddisfare desideri sempre più retrivi. Sento dire spesso: “Questo non lo possiamo fare perché l’italiano medio non lo capisce”. Lo scrittore Giorgio Bocca, che mi onorava della sua amicizia, un giorno mi disse: “Abbiamo inventato l’italiano medio per giustificare le nostre mediocrità”».

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