“4 volte 20”, il concerto per gli 80 anni di Al Bano su Canale 5

Il cantante è protagonista di una serata-evento. Intanto si racconta: dagli esordi a Romina, dai figli musicisti ai suoi vini pregiati

23 Maggio 2023 alle 15:54

Al Bano il 20 maggio ha compiuto 80 anni, anzi, «4 volte 20», come piace dire a lui. E il popolare cantante salentino festeggia alla sua maniera, con un concerto che viene trasmesso su Canale 5 martedì 23, una vita intensa e straordinaria. Degna di un romanzo, che lo ha visto trasformarsi, nei decenni, da contadino a umile emigrante a Milano, “apprendista” nel Clan di Celentano, stella della musica leggera, protagonista dei film “musicarelli”, messaggero della canzone italiana nel mondo, personaggio delle cronache dei rotocalchi rosa per la sua lunga unione con Romina Power, prima, e in tempi più recenti con Loredana Lecciso, frequentatore abituale delle classifiche e dei reality, imprenditore vinicolo, albergatore e tanto altro ancora.

Auguri Al Bano, come s’immaginava a 80 anni?
«Ma io, in verità, non me lo sono mai immaginato. Ho sempre pensato all’oggi, a vivere il presente, quello che qualcuno ha definito la virgola tra il passato e il futuro».

Uno si aspetterebbe una bella festicciola in famiglia, nella tenuta di Cellino San Marco (BR), invece lei si regala un super concerto all’Arena di Verona che vedremo su Canale 5...
«E perché, il pubblico non è la mia famiglia? La mia seconda, numerosa famiglia. Quante ne abbiamo passate insieme, quanti momenti abbiamo condiviso... avere un pubblico che ti segue da 60 anni non è uno scherzo!».

Una vita, la sua, che ama raccontare, ci ha scritto un sacco di biografie. La prima, “Vi racconto come sono”, è addirittura del 1968!
«Ho sempre scritto di quello che mi hanno chiesto. Una volta ho raccontato il mio rapporto con la fede, un altro quello con la cucina, poi ho parlato di mia madre Iolanda... La verità è che sono proprio contento della mia vita: non rinnego niente, ho avuto tutto e di più, nel bene e nel male. Le più grandi gioie e i più grandi dolori, ma la mia vita l’ho riempita di intensità, di impegno, di coronamento di progetti».

Il suo amico Renato Zero, che vedremo sul palco a Verona, cantava “I migliori anni della nostra vita”. I suoi quali sono stati?
«Quelli che devono ancora venire. Non sono uno che guarda indietro».

La sua prima canzone, nel 1965, è stata “La strada”, una cover di “Across the street” di Ray Peterson. Non proprio una canzonetta.
«Infatti. Era un blues con un testo difficilissimo scritto da Mogol. Fu una specie di scommessa con quelli del Clan di Celentano. Mi dissero che se fossi stato capace di cantarla potevo inciderla. Fatto. Credo di essere stato il primo bluesman italiano. Io, fin da subito, ho sempre cercato di differenziare il mio repertorio. Il mio problema è che intorno a me c’è sempre stata molta distrazione».

In che senso?
«Vede, a un certo punto su di me ha prevalso la favola che mi avevano cucito addosso i rotocalchi: “la bella e il contadino”. Si metteva sempre molto in enfasi il personaggio e questo ha sicuramente nuociuto al cantante. Mentre all’estero suonavo senza questi filtri e venivo giudicato solo per la mia musica, in Italia c’era sempre di mezzo il gossip. Nel 1976, per esempio, ero primo in molti Paesi francofoni, ma in Italia si parlava solo della favola con Romina. Se ci penso, ho lavorato per l’80 percento all’estero. Alla fine, però, mi piacerebbe che si tenesse conto che ho inciso 1.050 canzoni: quindi Al Bano è ed è sempre stato molto più del gossip. E c’è ancora tanto da scoprire».

Come dimostrò al suo papà, contadino e reduce di guerra, che aveva davvero avuto successo con la musica?
«Negli Anni 60 mandavo a casa 15.000 lire al mese. Mia madre mi disse che era più di quanto lei, mio padre e mio fratello insieme guadagnassero in un mese».

Il primo regalo importante fatto a papà?
«Il trattore. E poi li accontentavo sempre: su loro consiglio ho fatto tanti investimenti, anche se non sempre oculati. Se quegli stessi soldi li avessi investiti a Milano oggi sicuramente varrebbero una fortuna. Ma andava bene così, mi piaceva soprattutto renderli felici».

Il successo, comunque, è arrivato quasi subito. Nel 1967 uscì il disco “Nel sole” che divenne anche un film, uno dei cosiddetti “musicarelli”: ne girò ben sette in tre anni.
«Io volevo solo cantare. A fare il cinema non ci avevo mai neppure pensato, ma quelli della casa di produzione Titanus mi rassicurarono e mi spiegarono che mi avevano cucito addosso un progetto su misura. Nel cast c’erano tutti i nomi più importanti del momento: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Nino Taranto, Enrico Montesano, Loretta Goggi. Mi trovai subito bene. Recitare mi veniva naturale».

Eppure, malgrado la sua popolarità, la tv non ha mai pensato a lei per una serie, come è successo, per esempio, ai suoi colleghi Morandi e Ranieri.
«Che vuole che le dica? In “Un medico in famiglia” interpretai me stesso in un paio di episodi, ma non importa: non ho mai avuto il problema di non sapere che cosa fare».

Sempre nel 1967 fu chiamato ad aprire il tour italiano dei Rolling Stones.
«Di quel tour mi colpirono due cose: io poco tempo prima avevo preso parte al tour di Celentano e mi aveva impressionato il fatto che ogni sera assistevo a uno spettacolo diverso. Con gli Stones, invece, era ogni sera tutto perfettamente uguale: gli stessi accordi, le stesse canzoni, le stesse luci allo stesso identico momento. Tutto perfetto e professionale, intendiamoci, ma tutto tremendamente uguale. Insomma, ebbi la visione della differenza tra lo show business anglosassone e le doti di grande showman di Adriano».

Riuscì ad avere qualche contatto con gli Stones?
«Ma si figuri! Non parlavo mezza parola di inglese. Mi dissero, però, che sentendomi avevano commentato: “Che voce che ha questo qui”. L’ultima serata la facemmo a Roma: in prima fila c’erano Gina Lollobrigida, all’epoca al culmine della carriera, Renzo Arbore e Gianni Boncompagni... fu davvero emozionante».

Prima parlava della favola “Al Bano e Romina”. Al netto dei rotocalchi, come è stato l’incontro tra questi due mondi apparentemente lontanissimi: il cantante di estrazione contadina e la figlia del divo di Hollywood, la famiglia semplice e quella alternativa. Romina giovane e bella e...
«E che vuoi dire che sono un cesso (ride di gusto)?».

Io? Mai! Certo, Romina era una donna molto bella...
«Io credo che non bisogna mai dimenticare la forza del destino. Quando mi misi con Romina, sapevo che avremmo divorziato. Nella sua famiglia erano tutti divorziati, compresi gli zii, tutti. Per loro il divorzio era quasi un obbligo, un’evoluzione naturale e mi resi conto che non avrei potuto evitarlo. Il fatto è che, quando capitò davvero, non me l’aspettavo più, credevo di averla sfangata».

Ha mai avvertito nei suoi confronti un pizzico d’invidia?
«Un pizzico? Sapesse quante ne ho viste e sentite! Per non dire di tutti quei giovanotti che si sentivano autorizzati a tentare di conquistare Romina».

La vita, purtroppo, tra tante gioie le ha riservato il dolore più grande che possa abbattersi su un genitore: la perdita di sua figlia Ylenia. Come si fa, in quei momenti, a salire sul palco e cantare?
«Per me la musica è sempre stata il mio rifugio. Il lettino dello psicologo, una cura a tutte le mie problematiche, anche le più drammatiche. Canto per il pubblico, ma prima di tutto per me stesso».

Sua figlia Jasmine dice che lei la utilizza come “finestra” sulla musica contemporanea. Che cosa le piace oggi?
«La musica è lo specchio dei tempi. I canti gregoriani esprimevano la poesia di quell’epoca allo stesso modo di come ha fatto il rock in anni più recenti. Oggi, purtroppo, domina il rumore e il computer ha prevalso sulla musica. Di musica vera in giro non ne sento molta».

Yari e Jasmine hanno seguito le sue orme. Come se la cavano?
«Yari è un americano al 100%. Si è nutrito di quella musica e devo dire che suona molto bene. La ragazza, invece, è figlia di questi tempi: quando ho compiuto 70 anni mi ha regalato un cd con le sue cover delle canzoni di Justin Bieber. Aveva fatto tutto da sola: io fino a quel momento non sapevo neppure che avesse interesse per la musica. A volte leggo che il cognome può diventare un handicap, ma insomma, mica si chiamano Riina! Se hanno talento è giusto che lo tirino fuori e io credo che ne abbiano. Lo dico da musicista, non da papà».

Quanti giorni all’anno passa lontano da Cellino?
«Duecento, forse duecentotrenta...».

Ha mai pensato di fermarsi?
«Solo quando ho avuto un grave problema alle corde vocali. Non avevo più voce e se un cantante non può cantare, che fa? Ora, però, per fortuna, è tornato tutto come prima».

Ha una produzione di vini premiati, un’area della sua tenuta è adibita a resort: non mi sembra il tipo che se non canta non sa che fare.
«Per tutto quello che ho creato qui devo molto a Romina. Vede, io dalla Puglia ero scappato, spaventato dai suoi difetti, e non volevo più tornarci. Fu Romina a riportarmici e furono i suoi occhi da straniera a farmi scoprire, a farmi focalizzare sulla grande bellezza di questa terra. In quella che era solo una vecchia masseria cominciai a fare investimenti pazzeschi per renderla quello che è oggi. Pensi che nel 1970 spesi 20 milioni di lire solo per portarci l’acqua».

Beh, allora possiamo darci appuntamento a Cellino per festeggiare i 90 anni.
«Eh no, io ormai punto a 5 volte 20!».

Seguici