Gerry Scotti: «40 anni di televisione? Non mi sono accorto!»

Il conduttore sfoglia con Sorrisi l’album dei ricordi e annuncia i suoi progetti futuri

12 Ottobre 2023 alle 08:00

Gerry, si torna sempre dove si è stati felici?
«Torno dove mi sono trovato bene, come in una trattoria, un ristorante, un luogo. Se siamo stati bene, si torna».

A 67 anni Gerry Scotti si aggira negli studi Mediaset di Cologno Monzese come a casa. C’è il suo camerino (uno dei vari camerini nei vari studi dove registra i suoi vari programmi), la truccatrice, la costumista, l’assistente e amico del liceo, si sente un “ciao Gerry!” di qua, un “ciao Gerry!” di là. E così da quattro decenni. Tra qualche settimana tornerà in onda con “Io canto” che, riveduto e corretto, diventerà “Io Canto Generation”.

Quante “generazioni” ha coltivato nei suoi 40 anni di televisione?
«Sono figlio dei grandi protagonisti del bianco e nero, poi ho vissuto l’esplosione della tv commerciale con i suoi sfarzi: io, Paolo Bonolis, Marco Columbro eravamo i “polletti” nel cortile; in altri cortili c’erano Carlo Conti, Fabrizio Frizzi, Amadeus. Finché abbiamo preso consapevolezza che la tv eravamo noi. Adesso non c’è più una prateria davanti, ma vediamo gli steccati che ci circondano. Ora è tutto cambiato».

Ma lei è sempre in onda.
«Anch’io mi chiedo come dopo 40 anni possa essere ancora protagonista. Forse sarò oggetto di uno studio all’università, prima o poi».

Una risposta se la sarà data.
«Che è il mio genere televisivo. Non sono programmi per bambini o ragazzi, però molti mi dicono: “Ti guardavo sempre con mia nonna” o “con i miei genitori”, e questo mi fa venire le lacrime. Sarà pure il mio aspetto, i ragazzi mi prendono in giro, ritoccano le mie foto, mi usano per i video su TikTok, sono il loro pongo».

Un salto nel passato: la sera del 3 giugno 1983 andò in onda la prima puntata di “DeeJay Television” su Italia 1.
«Cito una frase in latino, visto che ho fatto il liceo classico: “Obtorto collo”. Fui quasi obbligato a fare tv da Claudio Cecchetto. Io ero un uomo felice, facevo la radio, il lavoro che avevo sempre sognato, ero tra i meglio pagati e i più ricercati».

Primo studio televisivo?
«In viale Fulvio Testi, alla periferia di Milano, un palazzo che confinava con la ferrovia, quando registravamo si urlava: “Treno!” e ci si interrompeva. Era un sabato sera, già estate, siamo andati in onda attorno alla mezzanotte. Mia mamma mi disse: “Sono stata su per guardarti!”».

I suoi genitori la volevano avvocato.
«Quando mia madre incontrava qualche signora milanese che le chiedeva: “El so’ fioeu fa l’aucàtt?” (Suo figlio fa l’avvocato?) prima rispondeva: “No, lavora in pubblicità”, e fino a lì se la cavava. Poi diceva: “No, fa la radio” e quasi si vergognava».

A un certo punto lei si è dato alla recitazione. Ma non è durata molto.
«Avevo fatto cose carine, fiction, sitcom, film. Ci fu una riunione con i dirigenti Mediaset. Il tema era: “Gerry, stai andando bene, potremmo trovare una serie con un prete, un commissario, un maresciallo. Però ci servi nel preserale, in quella fascia commerciale”. Il Gerry Scotti alle 7 di sera era il mio “core business”. E pure la mia “comfort zone”: mi costava meno fatica che girare una fiction».

Se fosse andata al contrario, che personaggio le sarebbe piaciuto fare?
«Ho ancora nella testa una specie di investigatore molto italiano. Certo, da quando ce l’ho in testa ne hanno fatti molti in tv, ma non escludo che possa essere in futuro una bella pista di atterraggio per me» .

Ha detto più volte: «A Mediaset mi sento come a casa mia».
«Oggi è passato un collega che è andato in pensione prima dell’estate. Quelli che tornano, vengono a salutarmi come se venissero a rivivere un pezzo della loro vita. E non parlo solo di dirigenti, ma di elettricisti, cameramen, macchinisti... Qui ho vissuto la vita mia e quella di tanti in maniera partecipata e condivisa, più di quanto abbia vissuto a casa mia».

La sua vera casa è un museo di memorabilia e premi televisivi?
«Ho un ufficio dove tengo queste cose, altre sono in un camerino negli studi di Cologno Monzese, o in quello di “Striscia la notizia”, o in una stanza nello stabile dove abito, ma non sullo stesso piano di casa mia. Ci sono le cose che mi portano gli amici del pubblico, i ricordi e pure tutti i miei Telegatti».

Sempre garbato, mai sopra le righe, ha fatto il liceo classico... Una gaffe le sarà pur sfuggita.
«Quando sbaglio, mi correggo al volo e chiedo scusa».

Faccia uno sforzo di memoria.
«Conducevo da poco “Il gioco dei 9”, all’epoca c’erano l’astrologa Lucia Alberti e la scrittrice Barbara Alberti. Venne quest’ultima e gli autori mi dicono: “È quella degli oroscopi”. Quando toccò a lei le chiesi: “Signora Alberti, come va il Capricorno quest’anno?”. Senza batter ciglio rispose: “Non male”. Dopo un po’ insisto: “Io sono del Leone, mi dica come andrà” e così via. Uscendo, nel corridoio, mi disse: “Giovanotto, deve aver sbagliato Alberti, ma mi sono divertita moltissimo lo stesso”».

Uno su mille (e molti mille) concorrenti passati sotto il suo sguardo?
«Nel 2020 registravamo “Chi vuol essere milionario?” in Polonia. Enrico Remigio lavorava a Singapore, mandò la domanda per partecipare: gli dissero che si doveva pagare da solo il biglietto aereo per il provino a Milano e poi lì gli comunicarono che il programma era in Polonia: “Pur di conoscere Gerry vengo”. Lo accolsi sotto una tormenta di neve: “Ma sei matto? E se perdi alla prima domanda?”. Vinse un milione di euro».

Una cosa che hanno detto di lei e non era vera?
«Che a 60 anni avrei smesso di fare tv. Avrò detto bonariamente: “Beati quelli che a 60 anni hanno raggiunto i requisiti per andare in pensione e vanno a pescare”. Io ho sempre dichiarato che finché mi diverto, mi regge la salute e le cose che faccio mi piacciono, continuerò a farle. Mike, Corrado, Costanzo... Nessuno si è mai domandato quando andassero in pensione».

A proposito di nomi eccellenti: Mike Bongiorno.
«Ce l’aveva con il fatto che facessi il suo lavoro senza cravatta. Quando mi incontrava in corridoio mi diceva: “Nell’intervista ho dichiarato che sei bravo e che un giorno potresti essere il mio erede, ma non ho detto al giornalista che ce la farai solo se metti la cravatta!”».

Raimondo Vianello.
«Non voleva più fare “Il gioco dei 9”, voleva parlare di calcio a “Pressing”. Mi chiamò Fatma Ruffini: “Vieni nel mio ufficio, c’è Vianello che ti vuole salutare”. Lui era famoso perché ti diceva una cosa e ti stendeva. Mi disse: “Ti lascio Il gioco dei 9, tanto me lo rovini, lo fai tu e lo chiudono” e si mise a ridere. Qualche mese dopo mi telefonò Sandra Mondaini, disse che Vianello mi guardava tutte le sere».

Pippo Baudo.
«Avevo ancora un contratto con la “DeeJay’s gang” di Cecchetto, ero a letto con il colpo della strega quando mi chiamò Pippo Baudo. Risposi con gran fatica. “Sono Pippo Baudo”. Pensai a uno scherzo di Fiorello, dissi: “Non è giornata” e chiusi. Baudo mi fece richiamare, mi fissò un appuntamento e mi fece firmare un contratto per Canale 5».

Raffaella Carrà.
«Quando lavoravo alla radio avevo preso l’abitudine, una volta alla settimana, di giocare a biliardo con gli amici in un bar a nord di Milano. Una sera si avvicina un tipo coi baffi: “Di là c’è una signora che vuole conoscerti”. Era Sergio Japino e di là c’era la Carrà, ma non riconoscendolo lì per lì ero un po’ inquieto. Poi la Carrà mi chiese di giocare a biliardo con lei. Ci siamo conosciuti così».

Maurizio Costanzo.
«Era direttore di Canale 5, continuava a dirmi: “I campionati non si vincono con gli attaccanti o i difensori, ma con i mediani e tu sei un mediano. Io dove te metto te metto, sai fa’ tutto”».

Mai pensato di passare dall’altra parte della telecamera? Regista, dirigente, direttore di rete…
«Sono talmente felice del lavoro che so fare che non me ne sono inventati altri. Però ho uno studio televisivo e una società di comunicazione con mio figlio Edoardo che si occupa del mio profilo Instagram e TikTok. Ora mi sono pure tolto lo sfizio e ho scritto un libro».

Un’autobiografia, come si dice, “definitiva”?
«No, è un raccontarsi nelle cose che mi sono capitate partendo dagli oggetti che hanno colpito la nostra vita e per mille ragioni sono spariti, e non ci sono più o sono finiti in soffitta. Una specie di catalogo dei ricordi».

Perché è diventato per tutti lo “zio Gerry”?
«Sicuramente la componente fisica, la mia carnalità, il mio quintale di peso ha agevolato. Hanno iniziato i colleghi, poi “zio” è entrato nello slang giovanile, “bella zio”, e ora i ragazzi chiamano “zio” me, che peso 105 chili, e J-Ax, che ne pesa 55. È una figura per cui nutrono rispetto e una certa complicità».

Ora è pure “nonno Gerry”. Scala tutti i gradini della parentela.
«Quella è una cosa mia e me la godo. Il 2 ottobre era la Festa del nonno, mi hanno messo in braccio il secondo nipote, il più piccolo, e ha pianto».

Nel suo lunghissimo curriculum manca solo il Festival di Sanremo. Ha affermato: «Lo guarderò da casa».
«Magari se Amadeus mi dà i biglietti questa volta vado a vederlo in prima fila».

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