Mentre sta per uscire con un film al cinema e una serie tv su Prime, pubblica la sua fantasmagorica autobiografia
Ma è tutto vero? «Certo che è tutto vero!» dice Christian De Sica. Non è per fare i malfidati, ma è impossibile sfogliare “Due o tre cose che mi sono capitate”, la sua autobiografia in libreria dal 28 novembre, senza domandarselo. Christian ha raccontato “gli incontri di una vita” (e questo è il sottotitolo del libro) in una vertiginosa passerella di stelle e situazioni. Del resto al suo mondo si sovrappone quello della sua famiglia e del padre Vittorio De Sica in particolare. Dunque ecco farsi avanti Alberto Sordi, Charlie Chaplin («Papà, il vecchio sta lì a giocare col cappello»: innocenza di un bimbo che non riconosce Charlot), Liza Minnelli, Ava Gardner…
Partiamo da papà Vittorio: da attore, una delle stelle più luminose del primo cinema italiano; da regista, la firma di quattro film premio Oscar (“Sciuscià”, “Ladri di biciclette”, “Ieri, oggi, domani”, “Il giardino dei Finzi Contini”)…
«E con “La ciociara” ha fatto anche vincere l’Oscar a Sophia Loren!».
Mi sembra un peso pazzesco da portarsi dietro…
«E pensi che gli Oscar non è mai andato a ritirarli. Era fatto così… Diceva: “Beh, tanto me l’hanno dato, no? E poi così non creo invidie”. In casa abbiamo solo quello per “Ladri di biciclette”».
Immagini di incontrare un marziano che non ha mai sentito parlare di lei: che cosa c’è scritto sul biglietto da visita che dovrebbe dargli?
«“Christian De Sica, attore”. A me piacevano il varietà, gli attori brillanti come Gianni Agus, i cantanti, gli showmen, le ballerine, e ho cominciato così. In effetti volevo fare il cantante. Ho partecipato anche a un Festival di Sanremo, nel 1973, con “Mondo mio”: m’hanno cacciato subito. Quando ho capito che non avrei vissuto con le canzoni, è venuto il cinema e il resto è storia. Sono vicino ai 110 film e solo quest’anno ne ho fatti quattro: il drammatico “I limoni d’inverno” (in sala dal 30 novembre, ndr), la serie “Gigolò per caso” (su Prime Video dal 21 dicembre), “Un altro ferragosto” di Paolo Virzì (previsto per il 2024) e due settimane fa ho concluso “Ricchi a tutti i costi”, il seguito di “Natale a tutti i costi” per Netflix. Se ci mette pure il libro, forse è persino troppo. Ma faccio il mestiere più bello del mondo e quindi sono felice: a 72 anni, se devo andare a lavorare alle 7 non mi sveglio alle 6, ma alle 5, con l’agitazione e l’emozione di un ventenne».
Di “marziani”, invece, lei ne ha incontrati molti, a giudicare dall’autobiografia. Qual è stato il più “marziano” di tutti?
«Forse il grande pittore Antonio Ligabue. L’ho incontrato con Cesare Zavattini, sceneggiatore di fiducia di mio padre e mio padrino. Mi portò in questa casetta di campagna dove Ligabue stava dipingendo una motocicletta. Ricordo dei bambini che correvano e urlavano: “S’è mangiato il topo! S’è mangiato il topo!”. Quello era un bel marziano! Ma era anche un grande artista».
Parliamo di “cinepanettoni”. A proposito, perché tanto astio contro di loro?
«Una volta un critico molto autorevole mi disse: “Io stronco sempre i film che fanno i soldi”... pensi che idiozia. “L’intellighenzia” non perdona il successo. A mio padre dicevano che lui, che aveva diretto “Ladri di biciclette”, non poteva poi fare il buffone interpretando il maresciallo Carotenuto di “Pane, amore e fantasia”. E lui rispondeva: “Ma non sapete che è più facile fare “Ladri di biciclette” che Carotenuto? Far ridere è più difficile!”. Non gli è mai stato riconosciuto».
A dicembre “Vacanze di Natale”, primo “cinepanettone”, farà 40 anni.
«Ero agli inizi e non potevo permettermi di portare la famiglia in albergo a Cortina, dove si girava. Salimmo da Roma io, mia moglie Silvia, mio figlio Brando in fasce e la bambinaia, solo perché un’amica ci prestò la casa. Interpretavo il figlio di un miliardario, ma viaggiavo su un’utilitaria e stavo coi miei in una casetta».
Tra i suoi (circa) 110 film ce n’è uno che oggi non girerebbe più?
«Ci saranno film non riusciti o dove non ho lavorato bene, ma li rifarei tutti. Anche il più banale mi ha insegnato qualcosa, perché in questo mestiere non finisci mai d’imparare. Tenga presente che io studio tutto il copione a memoria: non mi va di studiare la notte per le riprese del giorno. E le battute, come diceva mio padre, vanno conosciute come l’Ave Maria».
Occasioni perdute?
«La casa di produzione Paramount mi vide in un film americano che avevo fatto, “Un amore perfetto o quasi” del 1979, con Monica Vitti e Raf Vallone, e mi offrì di entrare nel cast di “Il Padrino - Parte III”. Pensi che fu chiamato anche John Travolta. Per una settimana non ho dormito da quanto ero eccitato… Poi Travolta disse di no per fare “Urban Cowboy”. Io non fui più richiamato, fu un vero dolore».
C’è una battuta per la quale verrà ricordato?
«Mah, non mi innalzo così tanto. Sono rimaste delle espressioni, però, che ancora mi ripetono: “Delicatissimo”, “Beh lasciamo perdere”, “Che ansia tremenda”…».
Se per strada un fan le vuole ripetere una sua gag, come reagisce?
«Beh, spesso non me le ricordo: ho detto talmente tante “frescacce” che poi le cancello. Ma sa che mi mandano video in cui rifanno le mie scene?».
Lei è un esperto di serie televisive e, in fondo, anche cinematografiche (che altro sono i “Natale a…” se non una serie?). Come si è trovato a lavorare per la nuova serialità delle piattaforme digitali con “Gigolò per caso”?
«Sono passati gli anni e il modo di raccontare non può che cambiare: oggi certi tempi morti non si potrebbero sopportare. Questa serie l’ho accettata perché mi divertiva, il personaggio era curioso: un vecchio gigolò che ha un infarto e obbliga il figlio, Pietro Sermonti, a fare il suo stesso mestiere per non perdere il parco clienti».
Il 30 novembre, invece, arriva al cinema con “I limoni d’inverno” di Caterina Carone. È difficile “sterzare” dalla commedia al dramma?
«No, è la cosa più bella che possa capitare a un attore comico, perché dà la possibilità di far conoscere un altro aspetto del tuo essere attore. Sono stato contentissimo e non è stato difficile farlo. Ricordo un consiglio di mio padre: “Quando devi fare un film realista, un personaggio autentico, cerca di non recitare, di non pensare alla battuta a effetto, ma cerca di guardare negli occhi chi ti sta davanti. Ascolta bene quel che ti dice e vedrai che le parole ti usciranno più facilmente e risponderai nel modo più giusto”. Mi sembra di esserci riuscito bene».
Cos’altro c’è di suo padre Vittorio che ogni giorno l’accompagna?
«C’è che prima di entrare in scena io mi raccomando sempre a lui. Sapesse quante volte mi sono detto: “Ma chi me l’ha fatto fare di fare questo mestiere”, perché si ha sempre un po’ di paura. E allora io dico: “Papà, proteggimi, aiutami tu”».