Giancarlo Giannini: «Ho sedotto Hollywood grazie alla mia gioia di vivere»

Dopo aver ricevuto la prestigiosa Stella sulla Walk of Fame di Los Angeles fa un punto sulla sua carriera

16 Marzo 2023 alle 08:09

«La Stella conta più dell’Oscar. Perché la statuetta viene data per un singolo film, mentre questa è per tutta la carriera!». Così Giancarlo Giannini ha espresso la sua soddisfazione per il grande onore che gli ha attribuito Hollywood: il suo nome brillerà per sempre sulla “Walk of Fame”, la “Passeggiata delle Stelle”. «Peccato solo che all’arrivo a Los Angeles mi abbiano perso la valigia con dentro il frac...». L’evento non ci stupisce troppo: l’attore è amatissimo in America fin dagli Anni 70, quando i film girati con Lina Wertmüller fecero scalpore (ottenne anche una candidatura all’Oscar nel 1977 per “Pasqualino Settebellezze”).

Giannini, si è emozionato durante la cerimonia?
«Un po’. Soprattutto perché ho ritrovato tanti amici. I produttori di “007” sono venuti apposta da Londra per parlare di me. Dustin Hoffman mi ha dedicato un filmato dicendo che col doppiaggio “lo miglioro” (ride). E poi ero lì con i miei figli e per fortuna, perché Adriano sa meglio di me dove si mangia bene».

Durante la cerimonia ha ringraziato Lina Wertmüller.
«Bisogna sempre ricordare i propri maestri».

Però ha anche detto che a Hollywood la amano più che in patria. Perché?
«Guardi che premio mi hanno dato! Lo sa che tra gli attori maschi c’è solo un altro italiano, ed è Rodolfo Valentino?».

Però via, anche in Italia ha vinto tanto: cinque David di Donatello!
«Quelli più vecchi me li hanno rubati, perché erano d’oro. Comunque non vorrei sembrare ingeneroso col nostro Paese. Una volta dissi che gli attori italiani sono i più bravi del mondo: pensavo alla commedia dell’arte, alla nostra tradizione secolare. In America qualcuno si offese, ma non Steven Spielberg. Mi invitò a vedere “E.T.” insieme e io dissi: “Ma che finale meraviglioso, con questi bambini che volano sulla bici. Come hai avuto l’idea?”. E lui: “Ma quale idea? L’ho ripreso dal finale di “Miracolo a Milano” di De Sica, ho solo messo la bici al posto delle scope”. E comunque non dimentico che tutto per me è iniziato in Italia».

Parliamo di questi inizi, allora. Lei è nato in Liguria, ma molti pensano che sia del Sud...
«Un po’ è per i miei personaggi, un po’ perché a 10 anni mi sono trasferito a Napoli, dove ho studiato da elettrotecnico. E ancora mi ci sento, elettrotecnico. Lo sa che il giubbotto pieno di gadget che porta Robin Williams in “Toys” l’ho inventato io?».

Il suo primo ricordo?
«Io che dico a mia nonna “gaggioli!”. Intendevo i fagioli all’uccelletto che faceva lei. A 4 anni la sorprendevo arrivando nell’orto all’alba per passare ore e ore con lei. Riconoscevo i profumi a un chilometro di distanza».

Agli inizi lei faceva teatro classico. Era il Romeo di Shakespeare...
«Con Franco Zeffirelli ho girato il mondo per tre anni. Lui mi ha inventato come teatrante, e poi Lina mi ha inventato come attore di cinema: due tecniche profondamente diverse. Zeffirelli mi ha insegnato a giocare, diceva che noi attori vendiamo fumo. E anche un’altra cosa fondamentale: “È dimostrato che dopo dieci minuti la soglia di attenzione si abbassa, quindi devi inventarti qualcosa ogni dieci minuti”. Mica facile!».

Poi vennero i film con Lina Wertmüller. “Mimì metallurgico ferito nell’onore”, “Travolti da un insolito destino...”: comici, grotteschi, esagerati. Come fu il cambiamento?
«Lina era un genio. Mi ha insegnato tutti i trucchi: come quando bacio Mariangela Melato mentre facciamo l’amore... in realtà baciavo una parrucca, così il primo piano veniva meglio. Con Lina e Mariangela passavamo notti a riscrivere le scene, c’erano un amore e una dedizione unica. E pensare che i produttori volevano un’attrice tedesca al posto di Mariangela! Ma noi ci impuntammo».

Come ha sedotto gli americani?
«Erano stupiti da tutte le parti che sapevo fare. Io ho sempre diversificato molto, come si fa con i soldi in banca. Il pubblico resta sorpreso e si incuriosisce. Ma anche loro incuriosivano me: una volta ho fermato per strada Marlon Brando e gli ho chiesto quale fosse il suo segreto. Lui disse: “Il copione”. In effetti, se osservate bene, lui non guarda mai gli altri attori. Lui pensa alle battute».

E il suo segreto qual è?
«La gioia di vivere. Quella che, come insegnante, cerco di trasmettere ai ragazzi».

Ha lavorato per tantissimi registi. Mai un problema?
«Solo con i piccoli, che pretendono di dirti cosa fare. Ridley Scott per “Hannibal” faceva sempre un solo ciak, al punto che ogni tanto chiedevo: “Ne vuoi fare un’altro?”. I più grandi ti lasciano libero: se ti hanno scelto ci sarà un motivo! Be’, a parte Stanley Kubrick che controllava ogni minuzia. Quando doppiai Jack Nicholson in “Shining” ci spedì la radiotrasmittente con cui parlava il personaggio del film. Voleva che usassimo proprio quella!».

Lei ha fatto megaproduzioni nazionali e internazionali, ma anche piccoli film. Quali le differenze?
«Gli anglosassoni sono molto seri, io invece amo giocare. Sui set di “007” facevo avanti e indietro dall’Italia e ogni volta che arrivavo Daniel Craig esclamava: “Finalmente sei tornato, così scherziamo un po’!”. Però la vera risposta alla sua domanda è: no, per un attore non cambia niente. Alla fine, quando scatta il ciak scende il silenzio e sei da solo davanti alla cinepresa, con la tua arte».

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