Vittorio Gassman, il ricordo di suo figlio Alessandro

Il grande attore avrebbe compiuto 100 anni il 1° settembre. E per Sorrisi suo figlio lo ricorda così

1 Settembre 2022 alle 07:47

Un secolo di Vittorio Gassman: giovedì 1° settembre il Mattatore avrebbe compiuto 100 anni. E invece ci manca dal 29 giugno del 2000, quando una notte si portò via l’artista che aveva dominato per più di 50 anni palcoscenici teatrali, set cinematografici e perfino studi televisivi (da dove pensate venga il soprannome “Mattatore”? Lo scoprirete tra poche righe).

Abbiamo parlato di lui con Alessandro Gassmann, terzo dei suoi quattro figli. Partendo dalla domanda più semplice: come lo chiamava?
«Lo chiamavo “papone”».

A lui piaceva?
«Penso di sì. E poi anche mio figlio Leo mi chiama “papone”, quindi immagino che sia perché siamo tutti alti, di grandi dimensioni, e allora viene più facile definirci con un accrescitivo».

A proposito di appellativi, “Mattatore” è ormai sinonimo di Vittorio Gassman: che ne pensava lui?
«Non ne abbiamo mai parlato, ma secondo me era una definizione che gli faceva piacere perché testimoniava l’apprezzamento del pubblico per il suo lavoro. Veniva dal titolo di una trasmissione televisiva del 1959 che fu molto importante sia per lui sia per la Rai, visto che fu abbastanza rivoluzionaria. Però rappresentava molti personaggi meravigliosi che ha interpretato, ma non lui come persona: nella vita era riservato, a tratti silenzioso».

Lei ha detto spesso che da bimbo pensava che suo padre fosse davvero Brancaleone. Cosa la colpiva di più in questo papà-Brancaleone?
«È vero, ero convinto che fosse Brancaleone! Mi colpiva il fatto che fosse un eroe fuori luogo, un personaggio goffo com’era mio padre nella vita. Che si facesse spesso male e che non vincesse tutte le sue battaglie. Questo lo rendeva molto buffo agli occhi di un bambino, e infatti il grandissimo successo dei due film a lui dedicati venne anche grazie al gradimento dei bambini».

Suo padre era così nella vita?
«Era un uomo di grandissima gentilezza e generosità: è stato il più grande elargitore di mance che io abbia mai conosciuto. Ma era anche goffo, sì: spesso gli cadevano le cose dalle mani, tanto che diceva: “Ho le mani poco prensili”. E poi era molto pericoloso andare in macchina con lui! Aveva la passione delle auto sportive e gli piaceva andare forte, ma non era un pilota provetto e credo di aver rischiato la vita tante volte con lui. Ma sono ancora qui a raccontarlo e questo mi fa particolarmente piacere!».

Oggi, invece, in quale delle decine di suoi personaggi rivede suo padre?
«Per me ci sono due Gassman. C’è lo “stra-protagonista” istrionico che parte da “Il sorpasso” e “I mostri” per arrivare a tutte le sue straordinarie commedie, come “Il gaucho”. E c’è il Gassman più maturo, con una recitazione di grandissima sensibilità, e qui penso a “C’eravamo tanto amati” e “La famiglia”, entrambi di Ettore Scola. Non so quale dei due meriti il primo posto in classifica, ma quello che a me oggi piace di più è il Gassman toccante, appena accennato, che Scola gli ha dato la possibilità di essere».

Quando lo “incontra” per caso in un film in tv, lo guarda o passa e va?
«Se non ho da fare, lo riguardo, perché mi fa piacere ricordarlo e perché è sempre una lezione importante per chi fa il mio mestiere».

Le è mai capitato, rivedendo un suo film, di dire: «Ma come ha fatto a fare questa schifezza»?
«Era lui che lo faceva! Preferiva parlare più dei film brutti che pensava di aver fatto, che di quelli belli. In particolare pensava di aver girato il film più brutto della storia del cinema: s’intitola “Sombrero” ed è del 1953».

Per lei, invece, qual è il film “irrinunciabile” girato da suo padre?
«Se devo dimenticarmi di essere suo figlio, penso che “Il sorpasso” sia il suo film più perfetto. Se invece devo non dimenticarmi di essere suo figlio, scelgo un film meno perfetto, ma sempre di Dino Risi, “Profumo di donna”. È ancora la sua interpretazione che mi emoziona di più, e consiglio ai lettori di leggere anche il romanzo di Giovanni Arpino da cui è tratto, “Il buio e il miele”. Quel ruolo gli valse il premio di Miglior attore al Festival di Cannes del 1975. Sconfisse il Dustin Hoffman di “Lenny”: una competizione di livello stratosferico».

Da ragazzo lei era uno scavezzacollo: che cos’è che suo padre le rimproverava di più?
«La mancanza d’impegno nella vita. Ha lavorato così tanto su questo mio aspetto negativo da ricostruirmi esattamente al contrario: ora sono considerato uno stakanovista, anche inutilmente iperattivo ed eccessivo».

Ma lei che cosa avrebbe voluto sentirsi dire da suo padre?
«Mi ha rimproverato quando ce n’era bisogno, ma mi ha detto anche delle cose molto belle. Ero la persona di famiglia che lo faceva ridere di più, perché non avevo timore reverenziale: ne vedevo i limiti umani e lo prendevo in giro. Questo lo faceva ridere molto, perché gli capitava raramente. Mi considerava una persona sincera».

Suo padre reputava una perdita di tempo il fatto che si fosse iscritto alla facoltà di Agraria. Non è che sua madre, l’attrice Juliette Mayniel, avrebbe invece preferito che lei rimanesse all’università?
«Mia madre era ancora meno “canonica” come genitore e mi ha sempre lasciato libero di fare quel che preferivo nella vita».

Come ha deciso di fare l’attore?
«Lo ha deciso mio padre. Io non andavo bene a scuola e avevo anche problemi comportamentali, ero irascibile, non vivevo bene il fatto di essere figlio di un personaggio molto famoso. Così lui mi ha “preso per i capelli”. Come prima cosa, mi ha fatto fare il servizio militare. Poi mi ha fatto fare l’attrezzista nella tournée teatrale del suo “Macbeth”. Lì ho capito che il teatro era un lavoro di gruppo e che questo gruppo in alcuni momenti diventava quasi una famiglia, e finalmente mi sentivo uguale a tutti gli altri. Infine mi costrinse a recitare con lui “Affabulazione”, un ruolo difficilissimo, un testo di Pier Paolo Pasolini quasi non recitabile. Sopravvissuto ad “Affabulazione”, ho capito che non poteva succedermi nulla di più terribile e ho cominciato a rilassarmi e ad accettare proposte di lavoro».

Si è mai sentito essere come un padre per suo padre?
«Sì, durante la tournée di “Camper”, l’ultimo spettacolo che abbiamo fatto insieme, attorno al 1994. Eravamo a Milano e vidi che stava male, che era sottopeso e depresso, così gli dissi che era il caso che interrompesse la tournée e si occupasse della sua salute. Per la prima volta accettò una proposta di questo tipo e iniziò a pensare un po’ di più alla sua persona che al suo dovere».

Ha evocato “La famiglia”. In quel film il ruolo del figlio di Gassman è ricoperto da Ricky Tognazzi: come pensa di essere stato interpretato?
«Il tipo di rapporto raccontato nel film non ricordava quello che c’era tra me e lui. All’epoca, però, Ettore Scola mi chiese se volevo interpretare nel film mio padre da ragazzo, ma ero troppo giovane e poi, se è vero che fisicamente assomiglio abbastanza a mio padre, il naso però è diverso. Provarono a mettermene uno aquilino posticcio simile al suo, ma ne uscì fuori una specie di pugile suonato, troppo giovane per il ruolo che poi andò ad Andrea Occhipinti».

Mi ha fatto ridere una definizione che ha dato di suo padre: “campione di pagamento delle tasse”…
«Una volta è capitato che la Guardia di finanza fosse venuta a casa nostra a fare un controllo. Chiaramente era tutto a posto, ma mentre stavano uscendo mio padre li fermò per dire che aveva in una piccola cassaforte il primo David di Donatello che aveva vinto e pensava che potesse essere d’oro o dorato, ma non sapeva come dichiararlo. I finanzieri si guardarono, lo guardarono, e poi gli dissero di stare tranquillo».

Sempre goffo nelle cose pratiche...
«Aveva delle usanze molto curiose. Per esempio non ha mai avuto la carta di credito, perché sosteneva che togliesse valore al denaro e che quindi fosse un oggetto volgare. Quando partiva per lavoro (viaggiava solo per lavoro), portava con sé enormi quantità di contanti, anche più del consentito, e quindi a volte veniva fermato in aeroporto. Poi era chiaro che lui era Gassman e capivano il problema, ma era sempre abbastanza imbarazzante».

Quando la vediamo sul set, che cosa vediamo di suo padre in lei?
«La lordosi. Soffro di mal di schiena come ne soffriva lui, c’è un’angolatura della schiena piuttosto particolare, un certo modo di camminare... Io credo di essere un attore diverso, ma il Dna è quello e con gli anni, per esempio, voce e aspetto fisico cominciano ad assomigliare di più ai suoi. Me ne rendo conto e mi fa compagnia, non mi dispiace».

Come vi siete salutati?
«Una sera sua moglie Diletta D’Andrea, la persona che è stata con lui più di tutti e sempre, doveva uscire a cena, così sono andato da lui per preparargli una pasta. Fu una cena tranquilla, silenziosa, come avveniva spesso negli ultimi tempi. Lo vedevo molto stanco, ma nulla lasciava presagire che se ne sarebbe andato quella notte. Dopo cena era in studio a leggere (aveva progetti per altri 30 anni!) e quando l’ho salutato mi ha detto “Spegni la luce”. Voleva solo ricordarmi di spegnere la luce nell’ingresso, ma era una cosa che diceva spesso, come tutti quelli che avevano vissuto le ristrettezze della Seconda guerra mondiale. Ci teneva molto a non sprecare ed è sempre stato convinto, anche all’apice della carriera, che da un momento all’altro la sua stella potesse spegnersi e farlo tornare a una condizione economica difficile. Negli anni ho ripensato a quella frase e ora ci leggo un insegnamento: dobbiamo ricordarci sempre di quanto siamo fortunati e cercare, per quanto possiamo, di non sprecare mai nulla».

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