“Django e gli altri. Molte storie, una vita”, l’autobiografia di Franco Nero

«Sono timido, non volevo scrivere di me» dice l’attore. «Ma una volta iniziato avrei potuto completare dieci volumi con quello che mi è successo»

14 Luglio 2022 alle 10:22

Se c’è una parola abusata, di questi tempi, è il termine iconico. Finalmente, un giorno, ti trovi davanti a Franco Nero: l’attore che ha dato il volto a Django, uno dei pistoleri che hanno fatto la storia del cinema, e al capitano dei carabinieri Bellodi in “Il giorno della civetta”, un film (tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia) che parla di mafia meglio di dieci trattati. Che è stato Lancillotto in “Camelot”, un classico hollywoodiano, e ha lavorato con alcuni dei registi più grandi: da Huston a Buñuel, da Fassbinder a Chabrol e fino a Tarantino. Senza dimenticare i maestri italiani: Lizzani, Prosperi, Corbucci, Damiani, Fulci, Petri, Montaldo, Tessari, Enzo G. Castellari, Squitieri, Bellocchio, Samperi, Festa Campanile, Zeffirelli, Avati, Corsicato...

Franco, era ora che la sua vita diventasse un libro...
«Già, ma io sono un timido e ho impiegato 80 anni prima di dire: “Ma dai, tiriamo un po’ le somme”. In verità, l’idea di scrivere “Django e gli altri” è stata di Rai Libri, con il mio amico Lorenzo De Luca (sceneggiatore e autore di vari testi sul cinema, ndr). Mi sono dovuto contenere, ci sarebbero voluti dieci volumi».

Partiamo dall’inizio, dalla “dignitosa povertà” del dopoguerra. Aiuta, la fame, nel mestiere d’attore?
«Aiuta, aiuta. Per me è stata fondamentale. La fame t’insegna ad arrangiarti, a cavartela in ogni occasione, e quando sono arrivato sul set avevo da pescare da tante situazioni reali. Comunque, mi creda, nella povertà non c’è niente di dignitoso. Sono le persone a esserlo, come mio padre, carabiniere pugliese: oggi si direbbe un uomo tutto d’un pezzo».

Nel 1966 fu scelto da John Huston...
«Un colpo di fortuna. Vide delle mie foto e mi convocò per un provino al Grand Hotel a Roma, dove doveva girare “La Bibbia”. La stanza era piena di gente, soprattutto donne, sue assistenti, e lui mi fa: “Undress”, spogliati. Mi ritrovai in mutande davanti a tutti, con grande imbarazzo, ma mi diede la parte di Abele».

Un sadico.
«Per nulla. Huston mi diede consigli che mi hanno sostenuto per tutta la carriera. Fu lui a dirmi: “Tu hai un fisico che ti permette di essere italiano, francese, russo...». Infatti ho interpretato personaggi di più di 30 nazionalità diverse. Ho una faccia poco italiana».

È anche uno dei pochi attori della sua generazione che parla inglese.
«Sempre merito di John Huston. Mi faceva ascoltare i dischi delle tragedie shakesperiane e io memorizzavo l’accento, anche se non capivo un tubo».

Il film della svolta, però, è stato “Django”, un set che rischiava di saltare ogni giorno...
«Mentre noi giravamo, i produttori andavano in giro a cercare i soldi per finirlo. Ma è stato un successo incredibile. Ed è diventato un classico, un cult amato in tutto il mondo».

Nel film si trascinava una bara. Nella storia, c’era dentro una mitragliatrice, ma nella realtà?
«Di tutto! Sassi, stracci, era una fatica tremenda. Alla fine delle riprese ero distrutto».

Nel 1966 la pagarono appena un milione di lire, l’equivalente di oltre 11 mila euro di oggi. Immagino che il successo del film l’abbia fatta recuperare.
«Senza alcun dubbio, ma non ho mai impostato la mia carriera sui soldi. Sa quanti me ne hanno offerti per fare pubblicità? Miliardi! Ho sempre rifiutato, sono tra i pochissimi a non averne mai fatta. Non voglio che la mia faccia sia associata a uno spazzolino o a uno yogurt. La gente deve sognare, è per questo che ho fatto anche pochissima televisione».

Che ha la tv che non va?
«Al cinema la gente paga un biglietto, si siede in silenzio e poi può decretare la tua fortuna o la tua rovina. La tv no, la gente la guarda mentre mangia o parla al telefono. Io ne ho fatta veramente poca. E sa quante serie mi hanno offerto?».

Tipo?
«“La piovra”, per citarne una, o il “Maresciallo Rocca”. Anche se lì sono contento perché al mio posto andò il grande Gigi Proietti, un attore bravissimo».

“Django” le aprì le porte di Hollywood (“Camelot”), che però a lei non piace. Nel libro scrive: «So, per averci vissuto, che non c’è posto più desolante, sul piano dei rapporti umani».
«È così. Lì sei da solo. Credo di essere l’unico ad avere stracciato un contratto con quattro film da girare ed essere tornato in Italia».

Ha sempre alternato cinema d’autore e di genere, alto e basso.
«Ho ascoltato il consiglio che mi diede Laurence Olivier: “Puoi scegliere di fare un film all’anno da star, sperando che sia un successo, o fare l’attore: variare, sperimentare e divertirti”. Però ho seguito anche il consiglio di Marlon Brando».

Ovvero?
«Se non sei l’attore principale rifiuta. Piuttosto fai un piccolo ruolo, un cameo, ma sempre da mattatore».

In un cinema italiano che rivendica tanti “mostri sacri”, lei in che posto si colloca?
«Molto in basso, almeno negli ultimi anni. Ho sempre corso da indipendente, non sono bravo a coltivare certi ambienti, e allora il cinema italiano si è un po’ dimenticato di me. Ma non mi lamento, perché lavoro tantissimo e in tutto il mondo: quest’anno ho già girato quattro film».

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