Arriva nei cinema «Bohemian Rhapsody», che fa rivivere la storia dei Queen

«Freddie Mercury? O lo ami o lo odi. E io l’ho amato. Di più: sono diventato lui». Rami Malek non esagera: l’attore interpreta il compianto leader della band nel film e la somiglianza è incredibile

A sinistra, Freddie Mercury durante il «Live Aid» del 1985, a destra Rami Malek nel film «Bohemian Rhapsody»
29 Novembre 2018 alle 12:29

«Freddie Mercury? O lo ami o lo odi. E io l’ho amato. Di più: sono diventato lui». Rami Malek non esagera: l’attore interpreta il compianto leader dei Queen nel film «Bohemian Rhapsody» e la somiglianza è incredibile. Non solo nell’aspetto, ma anche nello sguardo e nei movimenti. Un risultato ottenuto grazie a un’applicazione ai limiti del maniacale.

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Come si fa a «diventare Freddie»?
«Ho iniziato a prepararmi a mie spese, prima ancora che i produttori confermassero che il film si sarebbe fatto. Due mesi a studiare ogni intervista, video, concerto dove apparisse Freddie Mercury. Volevo parlare come lui, ridere come lui, o anche solo accendere una sigaretta come lui».

Imitarne la voce è facile?
«Nulla è stato facile in questo film!».

E i gesti da trascinatore?
«Quello che ho capito subito è che non ci serviva un coreografo, perché Mercury non faceva passi di danza in senso tradizionale. La sua era una eleganza innata, basata sull’agilità di un fisico atletico e flessuoso. Mi sono affidato a una studiosa di “linguaggio del corpo”».

Chi era per lei Freddie Mercury?
«Mi sono riconosciuto nella sua storia di immigrato che lotta per capire la propria identità e farsi accettare in un Paese straniero: lui veniva da Zanzibar, io vengo dall’Egitto. Quanto all’aspetto musicale che posso dire? Era un Dio della musica. Un predestinato».

Era anche un personaggio molto discusso.
«Per forza. Frasi come “il mio hobby è il sesso” non potevano non dare fastidio a qualcuno. Soprattutto se le metti davvero in pratica... Gli eccessi erano parte di lui e del suo sogno».

La morte di Freddie fu tragica: contrasse l’Aids.
«Con il regista ce lo siamo detti subito: non possiamo scegliere solo le parti felici. Questa è la sua storia, fatta di trionfi e di lacrime».  

Gli altri Queen hanno partecipato al progetto?
«Sono stati incredibilmente collaborativi. Ricordo il nostro primo incontro negli studi di Abbey Road a Londra. Dovevo fare una vera e propria audizione: cantare quattro pezzi e improvvisare le risposte a un’intervista fingendomi Freddie. Ovviamente ero un po’ intimorito. Alla fine Brian May, il chitarrista della band, si avvicina e mi fa: “Non male. Però ricordatelo sempre: noi siamo rockstar!”».

Il momento culminante del film è l’epica esibizione del 1985 al «Live Aid», nello stadio di Wembley, il concerto di solidarietà con l’Africa organizzato da Bob Geldof.
«Lo abbiamo ricostruito fedelmente, attimo per attimo, con i soci dei fan club a fare da pubblico. Prima una canzone al giorno e poi, finalmente, tutte insieme in una sola sequenza. Lì ho sentito la spaventosa energia che arriva dal pubblico a un cantante sul palco: per 30 minuti senti di essere onnipotente».  

Oltre alle sue canzoni che eredità ha lasciato al mondo Freddie Mercury, secondo lei?
«Direi l’idea che bisogna combattere per essere se stessi. Oggi la diamo per scontata, ma ai tempi di Freddie c’erano modelli a cui bisognava aderire. Non è mai sceso a compromessi con quello che gli altri si aspettavano da lui e non ha mai accettato di farsi catalogare. “Ho tante facce” diceva “perché dovrei sceglierne solo una?”».

Ma è vero che ha dovuto mettere i denti finti?
«Sì, perché quelli di Mercury erano più sporgenti dei miei. Sul set erano una specie di rito: li lasciavo per ultimi e, quando li infilavo, diventavo lui. Senza, mi sentivo nudo. E oggi sono in un cassetto di casa mia. Non si sa mai».

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