Checco Zalone racconta il suo nuovo film «Quo Vado?»

«Il posto fisso è un mito che non si abbatte nemmeno a cannonate. Ma con le risate, chissà...»

Checco Zalone  Credit: © Angelo Di Pietro
26 Dicembre 2015 alle 08:00

In una stradina nascosta di Roma Est, fra i resti di un acquedotto e un binario del tram, c’è un cancello di ferro con una decina di campanelli. Oltre il cancello, un cortile e una casa a due piani. È qui che Checco Zalone è rinchiuso da settimane per finire di montare gli 85 minuti del suo prossimo film. Titolo: «Quo vado?». Data di uscita: 1° gennaio 2016.

Anno nuovo, film nuovo. Checco e il regista e amico Gennaro Nunziante se lo rivedono, scena dopo scena, con la cura maniacale che da sempre li accomuna inseparabilmente. E instancabilmente. «Abbiamo tantissime immagini, forse troppe» ammette Checco. Si prende una pausa, mette sciarpa e cappello ed esce in cortile per fumare una sigaretta: è dimagrito, lo sguardo sempre mobile e la battuta sempre pronta. Sta finendo di comporre la canzone che chiude i titoli di coda. Ansioso? Confessa: «Ormai pure l’ansia si è stufata di me». Torna dentro. Suona alle tastiere il pezzo in lavorazione. Canta. «Speriamo che Celentano non se la prenda» dice. Sorride.

Perché Celentano?
«Questa è una canzone apocrifa che io ho attribuito al grande Adriano Celentano, purtroppo non ho ancora avuto l’onore di conoscerlo. S’intitola “La prima Repubblica” ed esalta il posto fisso».

Come lo esalta?
«Un verso dice: “I quarantenni pensionati che danzavano sui prati / dopo dieci anni sull’aeronautica volati”. E un altro: “Ti danno l’invalidità per tutta la vita / per un’unghia incarnita”».

«Il posto fisso» resta il sogno degli italiani?
«Resta il mito, e quello non lo sradichi nemmeno con le cannonate».

Come nasce «Quo vado?», il titolo?
«Una mattina ero al supermercato, ho chiamato il mio regista e gli ho chiesto: “Dove vado?” e poi insistevo: “Ma dove vado?”. È venuto così. I titoli devono essere brevi ed evocativi. È un film sul viaggio, un “on the road”, e “Quo vado?” poteva essere carino».

«Cado dalle nubi», «Che bella giornata» e «Sole a catinelle». Finito l’elemento meteorologico entra in scena il latino.
«Potevo usare ancora la nebbia e la grandine, che secondo me non tirano per nulla al cinema».

Nessun dubbio?
«Beh, mi hanno già fermato in 8 mila chiedendomi cosa voleva dire “Quo vado?”. Magari il prossimo lo chiamo “Amen”».

Al liceo come andavi in latino?
«Avevo un dignitosissimo sei allo Scientifico di Conversano, in Puglia. E in questa cittadina abbiamo ambientato alcune scene del film. Per esempio, il mio ufficio è quello del sindaco. Quando abbiamo girato in Comune tutti gli uffici hanno smesso di non-lavorare quel giorno».

Veniamo al protagonista, si chiama sempre Checco.
«Checco è uno che ha raggiunto il nirvana. Ha una fidanzata con la quarta di reggiseno che non sposerà mai, è abbastanza stupida e gli prepara il borsone per andare a calcetto. Ha pure una famiglia che gli paga vitto, alloggio, luce e gas. E soprattutto ha il posto fisso. È uno degli ultimi esemplari italiani con il posto fisso nel pubblico impiego».

Tu hai fatto il musicista, il cantante, il comico, l’attore, lo sceneggiatore: tutto tranne il posto fisso.
«Io non ho mai avuto il posto fisso, che pure quando ero ragazzino era l’obiettivo di mia madre e di tutta la famiglia. Era il massimo che ti poteva accadere nella vita, almeno a Capurso, dove vivevo. Era lo stipendio che arriva ogni mese. Infatti con l’apologia del posto fisso ci inizio pure il film».

Attenzione: prima scena del film.
«Il film parte con me che vengo sequestrato da una tribù africana e il capo tribù mi chiede di spiegare la mia esistenza. È la tribù dei Dogon, spero non si offendano, esistono per davvero, abbiamo controllato su Wikipedia! Insomma, loro mi sequestrano e io racconto chi sono e tutto quello che mi è successo. E spiego loro cos’è il posto fisso, spiego anche la tredicesima».

Nel film il tuo Checco ha un posto fisso nell’ufficio Caccia e pesca della Provincia.
«Ho cercato tra gli uffici provinciali: mi serviva qualcosa che avesse a che fare con il fucile, perché nel film Checco deve difendere una ricercatrice dagli attacchi dell’orso polare. Poi ho chiamato da anonimo la Provincia di Roma e la centralinista non sapeva nemmeno dove stava l’ufficio. Era perfetto».

Tu cacci o peschi nella vita?
«Mai. L’unica pesca che so fare è la pesca del polpo. Si prende un granchio e si attacca al filo, si solleva il braccio su e giù per ore, finché il polpo si attacca all’amo. A Bari per dire che sei scemo dicono: “Sei ’nu pulpo”».

E poi cosa succede a questo Checco impiegato modello?
«Arriva la riforma della Pubblica amministrazione, questi enti, ritenuti inutili dai più, vengono aboliti e quindi scatta la mobilità. Mi offrono dei soldi per andarmene oppure il trasferimento in Val di Susa. Tutti gli altri accettano i soldi, e io, invece, sono questo eroe che, nella lotta per conservare i privilegi, viaggio dappertutto. Gli assegni e le proposte aumentano, ma io non cedo nemmeno di fronte all’amore».  

In questo film per la prima volta vai all’estero, addirittura al Polo Nord!
«L’idea del film parte guardando un servizio di Sky Tg24, intervistavano un ricercatore della base artica del Cnr. Mi sono chiesto: “Ma perché questo qua sta facendo una lezione di caccia?”. Perché lì ci sono più orsi che persone! Nel film il Polo Nord lo abbiamo girato al Polo Nord, mentre l’Africa l’abbiamo girata in provincia di Latina, eh».

La crisi del lavoro, i profughi, i no-Tav: il film affronta tre temi di grande attualità.
«I temi sono solo delle pennellate, non sono sviluppati, non è un film politico, sono pretesti per raccontare la storia di Checco. I temi del film sono due: l’incapacità di cambiare di noi italiani e il concetto dell’educazione che per me rappresenta il minimo di buon senso».

Tipo?
«Quando è all’ufficio Caccia e pesca Checco dà la licenza di caccia a uno che gli porta in dono una quaglia e Checco dice: “Non è corruzione, è educazione”».

Un concetto ambiguo.
«In un’altra scena Checco è in fila al supermercato in Norvegia, lì c’è una società più civile, organizzata e virtuosa della nostra. Lui ha solo una bottiglietta e davanti c’è una signora con il carrello pieno che non lo fa passare. E allora lui le dà una lezione di educazione, una bella testata».

In uno spot confessi di non aver detto nemmeno una parolaccia in questo film.
«Ma è una ca...ata! Certo che ce ne sono, ce ne sono di meno, le parolacce sono una cosa che qualcuno mi rimprovera, ma non posso essere privato di un “ca....o” quando ci vuole. Probabilmente i norvegesi non hanno la parola “ca...o” nel loro vocabolario».

E le musiche e le canzoni del film?
«Le faccio io, è la parte più rilassante, dentro di me c’è un pover’uomo che vorrebbe essere un jazzista. Per la colonna sonora ci vuole proprio il musicista. Poi ci sono le canzoni».

Altri versi musicali oltre quelli finali già citati?
 «C’è una canzone in inglese che s’intitola “Italian Boy”, è una canzone lenta, una ballad, racconta dei pregiudizi che una ragazza straniera può avere su un italiano. L’apoteosi è quando dico: “I’m like Leonardo e Margherita Hack / I don’t want to fuck”».

Una volta hai detto: « L’happy end ci vuole sempre in un film commerciale». Confermi?
«Certo! Il modello a cui aspiriamo è la grande commedia all’italiana degli Anni 60. All’epoca avrebbero concluso un film così in maniera cinica. Oggi non funziona più, non si può togliere la speranza. Un film comico deve far uscire la gente dal cinema con il sorriso. Il film ha un finale che rischia di apparire buonista, però faccio un gesto che nessuno si aspetterebbe da me. Vedrete».


https://youtu.be/SM4xIJ2VK5I
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