«L’isola dei cani»: perché vedere il nuovo film di Wes Anderson
Esce il primo maggio l'ultimo lavoro del regista americano, che torna a cimentarsi con la tecnica stop-motion in questa storia che è anche una satira politica
Il titolo originale è «Isle of Dogs», che pronunciato ad alta voce suona proprio come la frase ?I love dogs?. E in effetti «L'isola dei cani» di Wes Anderson, in uscita nei cinema italiani il primo maggio, è un po' una grande dichiarazione d'amore e riconoscenza verso il miglior amico dell'uomo.
Il film, che segna il ritorno del regista di «Grand Budapest Hotel» alla tecnica stop-motion dopo «Fantastic Mr. Fox» del 2009, ci porta nel 2037 e più precisamente in Giappone, dove il sindaco Kobayashi esilia tutti i cani su un'isola-discarica per via di una misteriosa influenza canina che rischia di contagiare anche gli esseri umani. Atari Kobayashi, nipote del sindaco, non riesce ad accettare di separarsi dal suo migliore amico Spots e raggiunge l'isola per cercarlo. Lì farà la conoscenza di un gruppo di cani.
Una trama apparentemente semplice e lineare racchiude in realtà una delle migliori opere di Wes Anderson, tra ironia surreale, momenti toccanti e satira politica (con una neanche troppo velata critica alla politica di Trump). Ecco dunque tutto ciò che dovreste sapere sul film (senza spoiler, naturalmente).
Un cast d'eccezione
Per la versione originale del film, Wes Anderson ha ingaggiato una serie di attori d'eccezione per doppiare i personaggi principali. Qualche esempio? Bryan Cranston, famoso per il suo ruolo di protagonista in «Breaking Bad», è Capo (Chief in inglese), cane randagio che disprezza l'idea di essere addomesticato come i suoi compagni di avventura; Bill Murray, che ha preso parte a diversi film di Anderson, è il cane Boss; e ancora Edward Norton e Jeff Goldblum sono rispettivamente le voci di Rex e Duke, mentre Scarlett Johansson doppia la cagnolina acrobata Nutmeg.
Greta Gerwig, regista di «Lady Bird», è la studentessa americana Tracy Walker, in Giappone per uno scambio culturale, e Frances McDormand (premio Oscar per la sua interpretazione in «Tre Manifesti a Ebbing, Missouri») è l'interprete Nelson, che traduce i discorsi del sindaco Kobayashi. Numerosi anche i doppiatori giapponesi: il piccolo protagonista, Atari, ha infatti la voce di Koyu Rankin, e tutti i personaggi umani nipponici sono interpretati da madrelingua.
Questioni linguistiche
«L'isola dei cani» è ambientato in Giappone. Per questo Wes Anderson ha deciso di lasciare i dialoghi in giapponese, con una grande eccezione: come dichiarato proprio all'inizio del film, la lingua dei cani è stata tradotta per comodità in inglese (naturalmente in italiano nella versione doppiata). Attenzione, però: i dialoghi in giapponese sono privi di sottotitoli e di fatto incomprensibili per chiunque non conosca la lingua (e qui entra in gioco il personaggio dell'interprete, che effettivamente traduce in simultanea i discorsi politici del sindaco Kobayashi).
La scelta potrebbe apparire straniante - e di certo in un primo momento l'effetto è proprio quello - ma in realtà permette allo spettatore di empatizzare meglio con i cani protagonisti, perché ci si ritrova a seguire tutto dal loro punto di vista. Noi cerchiamo di interpretare i discorsi del giovane Atari così come fanno Capo e i suoi compagni.
Non solo: la decisione di mantenere le barriere linguistiche riflette un po' quella critica all'intolleranza presente nel film, perché fa capire come non ci sia davvero bisogno di comprendere la lingua di qualcun altro per capirsi a un livello più profondo e stringere legami di amicizia.
La tecnica stop-motion
La tecnica stop-motion richiede tantissimo lavoro: vengono usati pupazzi che devono essere mossi manualmente per registrare le scene un fotogramma alla volta. Anche per questo motivo, quindi, non è una tecnica che viene usata spesso, per quanto sia stata impiegata per film di grande successo (come «Nightmare before Christmas» e «La sposa cadavere» di Tim Burton).
Per realizzare «L'isola dei cani» è servito un team composto da venticinque animatori e dieci assistenti. Partendo da alcuni disegni utili a far comprendere come si svolgerà la scena, gli animatori sistemano i pupazzi, facendo cambiare loro posizione o espressione per poter immortalare ogni fotogramma che andrà poi a comporre la scena vera e propria.
A differenza di quanto accade con i film di animazione, la fase di doppiaggio precede quella di produzione, perché bisogna poi modellare foneticamente la bocca dei vari pupazzi così da riuscire a far combaciare il labiale con le battute del film. E questo non succede solo per i personaggi umani, ma anche per i vari cani. E a proposito di cani: gli animatori hanno usato animali veri per registrarne i movimenti e riuscire a riprodurli con i pupazzetti in maniera realistica e verosimile.
Perché vederlo
«L'isola dei cani» è un must per tutti i fan di Wes Anderson, che anche con la tecnica stop-motion sfrutta un'estetica ormai ben riconoscibile: le scenografie sono incredibilmente simmetriche e ben bilanciate, la cura per i dettagli è maniacale e contribuisce ad arricchire l'ambientazione (che in questo caso omaggia la cultura nipponica e si ispira ai lavori di Hayao Miyazaki e Akira Kurosawa).
Ma «L'isola dei cani» non è solo forma e tecnica vuota. C'è anche tanta sostanza: dietro l'ironia sottile e spesso surreale che pervade tutto il film, anche questo un tratto tipico delle opere di Anderson, si cela una neanche troppo velata critica politica, una condanna contro l'intolleranza che potrebbe essere letta un po' come una critica a Trump (anche se Anderson ha iniziato a lavorare al film prima delle ultime elezioni americane).
Più di ogni altra cosa però «L'isola dei cani» è un film che parla di amicizia e di fiducia, di solidarietà tra gli emarginati, di riscatto. E non lasciatevi ingannare: è un film più per adulti che per bambini.
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