L'attore saluta (per ora) la serie dei record e ci presenta il suo nuovo film. Con un grande ricordo per l’amico Bud Spencer
Come si fa a non volere bene a Terence Hill? Quando vediamo venirci incontro Trinità, cioè Don Matteo, cioè... Terence, con quel suo sguardo azzurro da arcangelo, per poco non dimentichiamo tutte le domande. C’è da raccontare il gran finale di «Don Matteo» (giovedì 19 vanno in onda le ultime due puntate della 11a stagione) e il suo grande ritorno al cinema con un film scritto, diretto e interpretato tutto da lui: «Il mio nome è Thomas».
Partiamo da «Don Matteo». Terence, può fare un bilancio di questa stagione che finisce?
«Sono contento, è una delle migliori. E con tanti nuovi personaggi da inserire non era scontato».
Però c’era anche una «certezza»: Nino Frassica. Possiamo dire che ormai formate una nuova coppia comica?
«Non sarebbe esatto, perché i duetti comici di Nino sono soprattutto con il capitano interpretato da Maria Chiara Giannetta. Però è vero che la nostra intesa è aumentata. Me ne sono accorto perché da un po’ di tempo accetta i miei consigli. Prima non lo faceva. Siamo entrambi molto riservati e all’inizio ci limitavamo a “fare la nostra parte”. Sarà che una volta l’ho visto in tv e gli ho mandato un messaggino di complimenti perché mi aveva fatto morire dal ridere. E così, messaggino dopo messaggino...».
E lei accetta i consigli di Nino?
«Io ascolto sempre le opinioni degli altri. L’ho imparato da Sergio Leone. Una volta eravamo in sala di montaggio, entra il ragazzo del bar con i caffè e lui gli fa: “Scusa, puoi fermarti un attimo e guardare questa scena?”. Il ragazzo guardava il monitor e lui guardava la sua faccia. Alla fine, quando è uscito, ha detto: “Non gli è piaciuta. Dobbiamo rifarla”».
Ci sarà una stagione 12 di «Don Matteo»?
«Lo spero, anche perché mi è rimasto il rimpianto di non aver avuto più scene con Maria Chiara Giannetta. Mi sembra che le poche girate insieme siano venute davvero bene. Ma credo che faremo in tempo a riparare... La decisione finale spetta alla Rai. E in quel caso torneremo a girare nel maggio 2019, non prima».
Nel frattempo i suoi fan potranno vederla al cinema in «Il mio nome è Thomas». Com’è nato questo film?
«Per 10 anni ho preso appunti su questa storia di un uomo che un giorno molla tutto e parte per il deserto. Non quello del Sahara ma quello di Almeria, nel sud della Spagna: il “mio” West, dove ho girato tanti film. “È un deserto piccolo” dice Thomas “ma me lo faccio bastare”».
Thomas dice anche: «Tutti cerchiamo qualcosa di più grande». Anche lei?
«Mi affascina il mistero e lo cerco nella religione, nella natura, nel cielo stellato... Per questo Thomas si rifugia in un posto lontano da tutti».
E però incappa in una ragazza. Anche lei misteriosa.
«Veronica Bitto. Brava e ancora poco conosciuta, il che per me è un vantaggio, perché così il pubblico crede di più nel personaggio. Non può dire come fa con me: “Ah, ma quello è Terence Hill!”. Quando recito vorrei essere sconosciuto anche io».
Un po’ difficile temo. Però è vero che dal film emerge un lato inedito di Terence Hill. È un film sincero, controcorrente nella sua gentilezza, toccante nella sua semplicità...
«Sì, però tranquillizziamo i lettori: ci sono anche le scazzottate. O forse dovrei dire... padellate».
Un omaggio alle pellicole con Bud Spencer?
«Naturalmente».
Il film è dedicato a lui. Cosa le manca di più, oggi, del suo amico Bud?
«Quel suo affetto da fratellone maggiore. Lui mi proteggeva, per esempio quando avevo poca voglia di parlare in pubblico. “Tranquillo, ci penso io” diceva. Oppure ricordo una volta che mi avevano invitato all’ultimo momento alla Mostra del cinema di Venezia, ma non sarei riuscito ad arrivare in tempo. “Tranquillo, ti porto io con il mio aereo”. E i miei amici con le mani nei capelli: “Ma ti fidi?”. Sì, io mi fidavo di Bud».
Bud lodava la sua tenacia, diceva che veniva dalla mamma tedesca. È vero?
«Sì, “disciplina” era la parola d’ordine di mamma Hildegard. Un giorno sono tornato a casa con 10 minuti di ritardo e mi sono beccato un ceffone. Ecco perché sui set sono sempre in orario! Bud era spontaneo, io secchione. Per esempio: i nostri film li giravamo in inglese e io per anni ho preso lezioni da una “speech coach”. Lui mi prendeva in giro: “Ma che ci devi fare con ’sta “speech coach?”. Però vorrei precisare che da mamma ho preso pure il gusto per gli scherzi. Papà Girolamo, invece, era serio e silenzioso. Alla faccia degli stereotipi su italiani e tedeschi».
Quei film sono rimasti nel cuore degli italiani. Qual è il segreto?
«Se lo sapessi! Ma sono convinto che contasse l’atmosfera di innocenza e divertimento che si respirava su quei set. Eravamo come bambini che giocavano. Io, per esempio, ho sciolto davvero le mie riserve sulla scelta di fare l’attore solo dopo aver recitato in “Lo chiamavano Trinità...”. Prima non mi divertivo!».
Se dovesse scegliere un solo titolo della sua carriera?
«Certamente il primo “Trinità”, perché fu una rivoluzione. Allora il genere western aveva stufato il pubblico e io, che lo amavo, ero disperato perché sentivo di aver “perso il treno”. Però c’era un certo Enzo Barboni che proponeva a tutti questo western ironico e nessuno lo voleva. Dicevano: “Ma come può funzionare? Qui non muore nessuno!”. Io e Bud volevamo lavorare ancora insieme e l’abbiamo aiutato a trovare i produttori. Con quel film, tra l’altro, ho scoperto che potevo far ridere. Mica lo sapevo allora... “Trinità” rilanciò il genere western. Insomma, avevamo perso il treno e ce ne siamo costruiti uno nuovo».
È vero che l’ispirazione per quelle scazzottate venne dal musical «Sette spose per sette fratelli»?
«In parte. Lì c’era un balletto con una zuffa che durava sei minuti. Io mi impuntai con il regista: “Dobbiamo arrivare a dieci”. Era tutto coreografato con una squadra di acrobati bravissimi. Registravamo un minuto di scena al giorno. Per una scazzottata intera ce ne volevano dieci».
Si è mai fatto male qualcuno?
«Io! Dovete sapere che avevamo una serie di porte, sedie e panche di balsa, un legno tenerissimo, da spaccare in quelle scene. Un giorno arrivo sul set e sento un tecnico gridare: “Ao’, avemo finito le panche di balsa”. E il regista: “E pigliane una vera”. Sono finito all’ospedale con cinque punti di sutura».
Cavoli. Oggi sarebbe uno scandalo e scatterebbe subito una causa milionaria.
«Eh... erano altri tempi!».