Sono dodici i film italiani che hanno vinto il più prestigioso premio del Festival in settant'anni: in attesa dell'edizione 2018, ripercorriamoli tutti
Tutto è ormai pronto per dare inizio al 71esimo Festival del Cinema di Cannes, dall'8 al 19 maggio sulla Croisette più fotografata del mondo. Sarà la coppia Cruz-Bardem ad aprirlo e il ventennale sfortunatissimo film di Terry Gilliam, forse, a chiuderlo. Nel mezzo: due film italiani in concorso, uno nell'Un Certain Regard firmato da Valeria Golino, tre nella Quinzaine fra cui il cortometraggio di Marco Bellocchio e due importanti restauri: «Ladri di biciclette» e «Gli specialisti». E mentre il delegato Thierry Frémaux prosegue la polemica tutta francese contro Netflix, si risolve il problema dell'assenza di titoli nostrani nel cartellone, problema che lo aveva colpito per gli ultimi due anni. La kermesse, si sa, è sempre fonte di controversie: e spesso si tratta di controversie che parlano italiano.
Facciamo un passo indietro, al 1960. Tredicesimo Festival di Cannes: presidente di giuria è lo scrittore Georges Simenon; fuori dal concorso viene presentato «Ben Hur». Dentro, invece, il film greco «Mai di domenica», che vincerà l’Oscar per una delle canzoni più influenti della storia del cinema. La Palma d’Oro va a un film fischiatissimo dalla sala stampa, un film italiano del più famoso regista italiano all’estero, che si chiama «La dolce vita». Il Premio della Giuria va sempre a un italiano, ma dieci volte più fischiato del precedente, fischiato come mai s’era sentito: «L’avventura» di Michelangelo Antonioni. Lo racconta Monica Vitti: al suo primo film da protagonista, per la prima volta in un festival. L'attrice – che aveva appena 29 anni – era emozionatissima: la passerella verso il Palazzo del Cinema le pareva lunghissima e piena di fotografi, entrando in sala aveva le ginocchia già sciolte. Il film veniva mostrato per la prima volta nel mondo e già dalle prime scene i giornalisti fischiavano. Arrivano le sequenze drammatiche e il pubblico, invece di commuoversi, ride. Lei uscì dal cinema in lacrime, corse verso l’albergo e ci rimase. Lì alloggiavano tutti, da Antonioni al resto della troupe: e proprio in quell’albergo, il giorno dopo, venne affisso un comunicato che Roberto Rossellini firmò insieme a molti altri cineasti, che diceva: «L’avventura» è il più bel film che sia mai stato presentato a un festival. Era vero, e la kermesse stessa ha voluto ricordarlo nel 2009, quando ha omaggiato lei e Antonioni con il manifesto della 62esima edizione.
Sul poster del 2014 è stata la volta di Marcello Mastroianni e l'anno scorso di Claudia Cardinale. Oggi, nel più conservatore dei cartelloni del Festival, tutte le speranze sono puntate sui nostri Matteo Garrone e Alice Rohrwacher, entrambi già vincitori del Gran Premio – Garrone addirittura due volte. E siccome la Rohrwacher è una delle tre registe donne di questa edizione, con la giuria a prevalenza femminile presieduta da Cate Blanchett, gli occhi della stampa internazionale sono tutti per lei: se il suo «Lazzaro felice» dovesse vincere, sarebbe la tredicesima Palma d’Oro per il nostro Paese. Ripercorriamole tutte, incrociando le dita e affidandoci ai francesi che, nel bene o nel male, hanno sempre dimostrato di saperci fare: se non fosse stato per il loro Festival, d’altronde, Antonioni non avrebbe fatto altri film dopo «L’avventura».
Il gattopardo (1963)
Quasi tutti 10 in pagella (solo il New York Times gli assegna 9) per quello che il Guardian definisce il miglior adattamento cinematografico di un libro. Eppure all’epoca fu un disastro tale da affondare la Titanus. Le centinaia di candele nei lampadari del palazzo non bastavano a rischiarare la scena ed era indispensabile quindi un impianto di illuminazione sul soffitto. Questo però faceva sciogliere le candele più velocemente e le riprese dovevano essere continuamente interrotte per sostituirle. Negli intervalli venivano rimpiazzati anche i guanti degli interpreti, che nel frattempo si erano macchiati di sudore. Per velocizzarne il lavaggio, Luchino Visconti fece mobilitare una lavanderia nei pressi del set. A livello produttivo non avrà seguito nel panorama italiano, ma sarà fonte d’ispirazione per il cinema estero: basti pensare a «L’età dell’innocenza» di Scorsese. Secondo l’Hollywood Reporter è la migliore Palma d’Oro della Storia. Nomination all’Oscar per i costumi di Piero Tosi.
La dolce vita (1960)
Il film che ha inventato il termine “paparazzo” vinse il Festival di Cannes dei fischi. Federico Fellini era già stato in concorso con «Le notti di Cabiria» che aveva eletto la sua Giulietta Masina migliore attrice del ’57. Ci tornerà alla fine degli anni Ottanta, per ritirare il Premio del 40esimo Anniversario grazie a «Intervista». Rivelarono che la sequenza più famosa del più famoso film d’Italia fu girata durante un marzo freddissimo: mentre Anita Ekberg, mezza nuda, non ebbe problemi a passeggiare nella fontana di Trevi, Marcello Mastroianni chiese di indossare una muta sotto al completo. Non bastò, allora bevve una intera bottiglia di vodka per riscaldarsi e girò la scena completamente ubriaco. La seconda migliore Palma d’Oro della Storia secondo l’Hollywood Reporter, Oscar ai costumi di Piero Gherardi, candidato anche per le scenografie e nomination a regia e sceneggiatura.
L'albero degli zoccoli (1978)
«Il più grande film italiano degli anni Settanta» scrive Morando Morandini nel suo dizionario, «Con "Novecento" di Bertolucci che è il suo opposto». La grandezza è letterale: tre ore e sei minuti questo, quasi cinque e venti quell’altro. Rappresentazione liricizzata, poetica, forse più ideale che effettiva, della vita contadina nelle campagne di Bergamo. È il primo e unico film recitato in quel dialetto e fu doppiato dagli stessi interpreti (attori non professionisti) in un linguaggio più vicino all’italiano. Selezionato dal Vaticano nella lista dei 45 più grandi film, è uno dei preferiti di Al Pacino. Ermanno Olmi tornerà a Cannes nel 2001 con «Il mestiere delle armi»: ma è il Festival di Venezia il suo “posto”. BAFTA come documentario, César al miglior film in lingua straniera, David di Donatello al miglior film, sei Nastri d’Argento di cui quattro allo stesso Olmi.
Padre padrone (1977)
Sophia Loren incanta i fotografi e i critici con «Una giornata particolare», ma né il film di Scola né «Un borghese piccolo piccolo» di Monicelli riescono a salire sul palco dell’Auditorium Lumière: eppure la giuria era presieduta da Rossellini. La Palma comunque viene assegnata all’Italia di Paolo e Vittorio Taviani che, caso più unico che raro, sarebbero passati con lo stesso film anche dal Festival di Berlino. Gavino Ledda, autore del romanzo autobiografico e omonimo, compare sullo schermo nell’atto di dare al padre il bastone con cui lui stesso veniva picchiato da piccolo. Costretto alle greggi e ai pascoli sardi fino all’età di vent’anni, Gavino maturerà la ribellione verso la figura paterna, fonte del suo isolamento, solo durante il servizio militare. Due Nastri d’Argento, un David di Donatello “speciale” e una candidatura al BAFTA per Saverio Marconi, all’epoca neanche trentenne, come miglior attore emergente: perse contro Isabelle Huppert.
Blow-up (1966)
Dopo la tetralogia sull’incomunicabilità, Michelangelo Antonioni sposta la sua poetica all’estero: prima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti e in Spagna. La risonanza è alta: «Blow-up» viene candidato a due Oscar, tre BAFTA e un Golden Globe. Il regista si era ispirato al racconto «Le bave del diavolo» di Julio Cortázar, pubblicato nella raccolta «Le armi segrete»: non gli interessava la vicenda, quanto il meccanismo delle fotografie. Scrisse allora una nuova storia: Tonino Guerra lo accompagnò per i dialoghi italiani, Edward Bond per quelli inglesi. La colonna sonora, invece, fu affidata a Herbie Hancock. Vinse il Nastro d’Argento come regista del miglior film straniero, ma si rifiutò di andarlo a ritirare perché a Monica Vitti non venne dato il premio per l’interpretazione di «Ti ho sposato per allegria»: quell’anno, effettivamente, il Nastro alla migliore attrice non fu assegnato. Posizione numero 4 nella classifica delle migliori Palme della storia di Cannes secondo l’Hollywood Reporter.
Miracolo a Milano (1951)
Nei primi anni Cinquanta l’Italia vive il boom economico: ironicamente, il progresso è direttamente proporzionale all’aumento della povertà acuta. La sceneggiatura di Zavattini però risaliva al 1940, fu trasformata nel romanzo «Totò il buono» e poi in un film, il cui titolo provvisorio avrebbe dovuto essere «I poveri disturbano»: fece infuriare la Sinistra e fu subito sostituito col tono di fiaba. La storia si apre con un neonato trovato fra i cavoli, prosegue con una colomba tra due angeli e quasi finisce con i barboni a cavallo di scope volanti: nonostante ciò, continua ad essere considerato un film neorealista. Gli effetti digitali furono costosissimi, delegati nientemeno che agli americani: ma l’unico Nastro d’Argento fu per le scenografie di Guido Fiorini. Gran Premio del Festival ex aequo con «La notte del piacere» di Alf Sjöberg: il film di Vittorio De Sica e quello svedese riuscirono addirittura a battere «Eva contro Eva».
Il caso Mattei (1972)
Il 1972, restando in tema, fu miracoloso – o miracolato. Furono due le Palme d’Oro ed entrambe assegnate all’Italia: la vincono «Il caso Mattei» di Francesco Rosi e «La classe operaia va in paradiso»: entrambi i film sono interpretati da Gian Maria Volontè, che riceve la menzione speciale del Festival per le sue performance. Per Rosi si tratta della seconda di quattro volte a Cannes: l’ultima, nel ’97, sarà con il suo ultimo film, «La tregua». «Il caso Mattei» ripercorre la vita dell’industriale Enrico, presidente dell’ENI, che si occupava del petrolio della Val Padana ma anche di quello del Medio Oriente e dell’URSS; come tutte le sue opere è però un giallo politico: parte infatti dalla misteriosa morte in un sospetto incidente aereo. Nastro d’Argento a Luigi Squarzina come miglior attore esordiente: era un regista di film per la tv ormai cinquantenne che si lanciava davanti alla macchina da presa per la prima volta.
La classe operaia va in paradiso (1972)
Terza volta a Cannes per Elio Petri, che nel ’67 aveva vinto il premio alla sceneggiatura di «A ciascuno il suo» e tre anni dopo il Gran Premio della Giuria per «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto». Lulù Massa mantiene due famiglie fino al giorno in cui perde un dito: poi perde il lavoro, poi perde l’amante. Diventa contestatore, quasi sindacalista, infine parte integrante della catena di montaggio. È la prima volta che il cinema italiano entra nel mondo della fabbrica e ne racconta macchine, macchinazioni e macchinisti. Seconda parte della Trilogia della Nevrosi che si concluderà con «La proprietà non è più un furto». David di Donatello al miglior film, pari merito con «Questa specie d’amore»; David speciale anche a Mariangela Melato, protagonista quell’anno anche di «Mimì metallurgico ferito nell’onore». Nastro d’Argento alla Melato a Salvo Randone.
Signore e signori (1966)
Nel 1966 la Palma d’Oro fu ribattezzata «Gran Premio del ventesimo anniversario del Festival Internazionale del Film»: andò a «Un uomo, una donna» di Claude Lelouch (che poi avrebbe vinto due Oscar) e a Pietro Germi, habitué di Cannes, per il quale nel ’62 avevano inventato apposta un premio alla migliore commedia volendo gratificare a tutti i costi «Divorzio all’italiana». Bizzarro il titolo internazionale: «Gli uccelli, le api e gli italiani», ancora più bizzarra la storia di tre corna e altrettanti cornuti in una Treviso mai nominata, dove il divorzio non c’è ma incalza il chiacchiericcio. Ne risulta una commedia all’italiana (una delle ultime) più cattiva di quelle d’ambientazione siciliana a cui ci aveva abituato il regista stesso. Due David di Donatello, tre Nastri d’Argento e una nomination al Golden Globe come miglior film in lingua straniera.
La stanza del figlio (2001)
Era la quarta volta a Cannes per Nanni Moretti che già aveva vinto il premio alla migliore regia per «Caro diario» nel ’94. Prima dello sconvolgimento politico de «Il caimano», quello religioso di «Habemus papam» e quello famigliare di «Mia madre», riuscì a vincere il premio più ambito del Festival contro «La pianista» di Haneke, «Moulin Rouge!» e «Mulholland Drive». Quello che all’epoca venne definito come il suo film “della maturità” ruota tutto attorno all’elaborazione del lutto per un figlio prematuramente scomparso e attorno a una famiglia di tre persone che reagiscono ognuno a suo modo. Ma ruota, anche e soprattutto, attorno a Moretti stesso: regista, produttore, sceneggiatore e interprete principale. Fu l’esordio sullo schermo di Jasmine Trinca che avrebbe fatto di nuovo centro, due anni dopo sempre a Cannes, con «La meglio gioventù».
Due soldi di speranza (1952)
Più che la trama (un disoccupato si arrangia per vivere e incontra una giovane rampante ma squattrinata quanto lui) è la modalità di scrittura che ha fatto scuola. Dopo aver raccolto le testimonianze di un vero disoccupato, il regista Renato Castellani le ha fatte tradurre in dialetto napoletano da Titina De Filippo. Nonostante il protagonista sia maschile, fu la figura della donna ad avere la meglio nella memoria popolare, e la pellicola segnò un primo passo verso il “Neorealismo rosa”, proseguito poi con le serie di «Pane, amore e fantasia» e «Poveri ma belli». Contemporaneo allo sventurato «Umberto D.» di Vittorio De Sica, con cui era a Cannes e a cui si avvicina anche nei temi, ebbe un esito commerciale totalmente opposto. Gran Premio del Festival pari merito con «Otello» di Orson Welles e tre Nastri d’Argento: miglior regia, fotografia e sceneggiatura.
Roma città aperta (1946)
Era praticamente la prima edizione del Festival di Cannes (ce ne fu una numero zero nel ’39) e la Palma d’Oro si chiamava Gran Premio del Festival. Lo vinsero undici film, tra cui «Giorni perduti» di Billy Wilder e «Breve incontro» di David Lean. Il quarto lungometraggio di Robero Rosselini, girato in ogni sorta di difficoltà economica e organizzativa, era il primo germe di una corrente che poi avrebbe preso il nome di Neorealismo. Nella Roma occupata del ’43 una popolana, un sacerdote e un ingegnere comunista vengono uccisi brutalmente, e in momenti diversi, dai nazifascisti. Anna Magnani ricalca la morte per strada di Teresa Gullace: nonostante le pochissime scene, è la figura fissa di qualsiasi locandina: vinse il Nastro d’Argento come attrice non protagonista e in National Board of Review. Il film invece fu nominato agli Oscar del ’47 per la sceneggiatura di Fellini e Amidei.