Da quasi dieci anni ormai la tradizione è rotta, e non sono più cinque i film che si contendono il Premio Oscar come migliore pellicola dell’anno ma un numero variabile da sei a dieci. Di solito non si scende mai sotto all’otto, e infatti i titoli che gareggiano per la statuetta 2018 sono nove: stando ai bookmakers, sarà una lotta a due tra il Leone d’Oro di Guillermo Del Toro «La forma dell’acqua» e il vincitore di quattro Golden Globes «Tre manifesti a Ebbing, Missouri».
Il premio, tradizionalmente, viene ritirato dai produttori della pellicola; ultimamente però il coinvolgimento emotivo ha fatto salire sul palco tutta la crew, gli interpreti, il regista – ed ecco spiegato l’affollamento tra le scalette e i microfoni del Dolby Theatre, l’anno scorso, quando insieme ai presentatori del premio Warren Beatty e Faye Dunaway c’era mezza troupe di «Moonlight» e mezza di «La La Land». L’incidente, di cui non dovrebbe esserci bisogno di rinfrescare la memoria, ha avuto una risonanza mediatica tale che è diventato l’incubo del presentatore Jimmy Kimmel – confermato per la seconda conduzione consecutiva – nello spot promozionale dell’evento, che sarà trasmesso la sera del 4 marzo sulla Abc statunitense. Persino sul poster si legge: «cosa potrebbe andare storto?». Un nastro rosa della canzone italiana diceva: lo scopriremo solo vivendo.
Chiamami col tuo nome
Ultimo capitolo della Trilogia del Desiderio, dopo «Io sono l’amore» e «A bigger splash»: sempre a metà tra l’aristocrazia e la borghesia, sempre da qualche parte in Italia, ma questa volta il desiderio è represso perché ci troviamo negli anni Ottanta, e siamo di fronte a due uomini: uno è Elio, adolescente che «sa tutto», che suona il piano e la chitarra, che trascrive musica e parla inglese, francese e italiano; figlio di un professore universitario, ogni estate cede la sua stanza nella villa in campagna del bergamasco a uno studente modello agli sgoccioli della tesi. L’altro, nel 1983, è Oliver: ventiquattrenne che piace a tutti e che tutti liquida dicendo: «dopo». Passano la prima ora del film a ignorarsi e noi i titoli di coda a piangere. Dirige Luca Guadagnino, scrive sua maestà James Ivory, candidato tre volte all’Oscar come regista e, adesso, per la sceneggiatura adattata dal romanzo di André Aciman. Interpreta Elio l’astro nascente Timothée Chalamet, miglior attore protagonista. Guadagnino non è nuovo ai Premi Oscar: nel 2011 il suo terzo lungometraggio di finzione fu candidato per i costumi.
L'ora più buia
Nato a Londra e più inglese che non si può, Joe Wright ha a casa due BAFTA, ma neanche una nomination all’Oscar. I suoi film precedenti («Orgoglio e pregiudizio», «Anna Karenina») avevano ottenuto qualche timida candidatura e solo «Espiazione» era riuscito a entrare tra i migliori film dell’anno, dopo aver vinto il Golden Globe. Una puntata di «Black mirror» (quando era inglese pure quello), poi il disastro combinato con «Pan» (voto di critica: 36 su 100) e la redenzione arriva a settembre 2017 con un’altra storia più UK che mai: la decisione, di Winston Churchill, di negoziare o meno con Adolf Hitler agli albori della Seconda Guerra. Sotto al mascherone del Primo Ministro si nasconde Gary Oldman, migliore attore protagonista con la statuetta in tasca grazie a una performance camaleontica che gli ha già fruttato il suo primo Golden Globe, il primo SAG Award e il terzo BAFTA – ma il primo come attore. Con tempismo perfetto, il film arriva in sala mentre Churchill c’è ma non si vede in «Dunkirk» di Nolan e, ironia della sorte, scompare anche dalla serie di Netflix «The crown».
Dunkirk
Già dal quarto lungometraggio Christopher Nolan ha dimostrato che si può fare cinema d’autore anche con i blockbuster. Solo i tre titoli di Batman avevano un budget stimato di 585 milioni di dollari: hanno incassato 2 miliardi e mezzo – per cui non gli è stato difficile convincere gli americani a farsi produrre un film di guerra senza sangue né parole e che racconta una pagina non solo quasi dimenticata della Storia inglese – ma che è anche una pagina di amara sconfitta. Siamo nel 1940: per i francesi il conflitto è già perso, per gli inglesi l’unica speranza è oltre il Canale della Manica; tutt’intorno, nella città di Dunkerque, i soldati nazisti assediano. Abbandonato il sodalizio artistico con il fratello Jonathan, ormai assorbito dalla serie «Westworld», Nolan scrive da solo e dirige tre episodi incastrati per aria e per mare e “fuori scala”: solo nelle sale italiane il film è stato proiettato in sei formati diversi. Otto nomination in tutto, per la prima volta anche quella a Nolan come miglior regista, e l’undicesima, sacrosanta, per Hans Zimmer e la sua colonna sonora classico-industriale da più di un’ora.
Scappa – Get Out
Nel 2000 Jason Blum fonda una casa di produzione che chiama, un po’ autoreferenziale, Blumhouse, con l’obiettivo di distribuire film horror a basso budget. Con l’eccezione «The reader», nel 2009, arriva ai Premi Oscar; «The visit», qualche anno dopo, incassa quasi 100 milioni di dollari (ed era costato 5). La strada è tutta in discesa: «Split», 9 milioni, ne guadagna quasi 280; «Auguri per la tua morte», 115. «Get out» si inserisce in questo spaccato produttivo: 4 milioni e mezzo di budget e 255 di incasso; dietro alla macchina da presa c’è un nome poco noto in Italia ma che negli USA è un habitué della televisione: Jordan Peele. L’anno scorso ha vinto un Emmy per il suo programma di sketch pluri-nominato «Key and Peele», è stato la voce di Fanny in «Bob’s burgers» ed è passato da «Rick & Morty» e «American dad!». Il suo horror è più vicino alla commedia satirica, un «Indovina chi viene a cena» ambientato in una cittadina distopica, dove quasi non esistono afroamericani – e quei pochi che esistono sembrano troppo mansueti. Il protagonista Daniel Kaluuya, classe 1989, adesso è nel cast del «Black Panther» Marvel.
Lady Bird
Opera prima “e mezzo” per Greta Gerwig, che aveva debuttato dietro alla macchina da presa nel 2008 con «Nights and weekends»: dirigeva insieme a Joe Swanberg, l’uomo che l’aveva inserita nel circolo dei “mumblecore”, i film americani a costo zero e con sceneggiatura inesistente, basati quasi esclusivamente sull’improvvisazione – e, quindi, sulla bravura degli interpreti. Greta, infatti, è innanzitutto un’attrice; la sua prima sceneggiatura “vera” arriverà solo nel 2012, con «Frances Ha», film che le fa ottenere la prima candidatura al Golden Globe e che consacra la relazione sentimentale col regista Noah Baumbach. «Lady Bird» si può considerare il prequel di quella storia: prima ancora del trasferimento newyorkese, prima del college e dei lavoretti per pagare l’affitto, dei coinquilini e dei traslochi nella Grande Mela: gli anni del liceo. Greta, a 35 anni, è anche produttrice e regista, la quinta donna ad essere candidata all’Oscar per la regia in novant’anni di premiazioni, in marcia insieme alla sua protagonista Saoirse Ronan per dimostrare che i “coming of age”, i film di formazione, non devono avere sempre e solo protagonisti maschi. Nomination anche a Laurie Metcalf, attrice non protagonista, che qualcuno ricorderà per il ruolo vulcanico di «Pappa e ciccia».
Il filo nascosto
La carriera cinematografica di Paul Thomas Anderson compie quest’anno trent’anni e vanta otto lungometraggi che hanno letteralmente fatto impazzire la critica; eppure soltanto «Il petroliere» nel 2008 riuscì ad essere candidato all’Oscar per il miglior film – e a vincere le statuette per la fotografia e l’interpretazione di Daniel Day-Lewis. Oggi, che Daniel Day-Lewis annuncia di ritirarsi dalle scene, Anderson ritorna a sorpresa nella competizione “grassa” degli Academy Awards con una nomination come regista e una come produttore: né dai BAFTA né dai Golden Globes infatti il film era stato preso seriamente in considerazione. Eppure non c’è stato un giornale statunitense, dal Guardian all’Hollywood Reporter, che non gli abbia dato il massimo dei voti. Anche la critica italiana innalza il film a capolavoro – grazie soprattutto al finale che rivela il sadomasochismo di una storia d’amore apparentemente totale. Oltre agli interpreti (due su tre in corsa per la statuetta), arrivano agli Oscar anche i costumi di Mark Bridges e la colonna sonora originale di Jonny Greenwood.
The Post
Nel 1971 il New York Times rivelò al mondo che tutti gli ultimi presidenti americani sapevano perfettamente che la guerra in Vietnam era ormai persa, ma lo Stato continuava a spedire giovani al fronte per non ammettere la sconfitta e guadagnare tempo. I Pentagon Papers, il sussidiario di quella battaglia, finirono nelle mani di un altro giornale, un quotidiano locale fondato da Eugene Meyer passato nelle mani del genero Philip Graham, il Washington Post. Ma quando lo scandalo investe gli USA, e gli editori rischiano di finire in galera nonostante il primo emendamento, Graham è venuto a mancare e la direzione del giornale è slittata alla moglie Katharine. Una donna a capo di una schiera di giornalisti, editori e inserzionisti tutti maschi? Una donna che deve prendere la più rischiosa delle decisioni? Steven Spielberg abbandona tutto quello che sta facendo (soprattutto «The kidnapping of Edgardo Mortara») e mette insieme, per la prima volta, Tom Hanks e Meryl Streep – cavalcando l’onda della presidenza Trump, della libertà di stampa che vacilla e del movimento “Time’s Up”. Ma il film è tutt’altro che frettoloso: la mano del maestro si riconosce, ben salda, aiutata dai suoi interpreti: 21esima candidatura per la Streep.
La forma dell'acqua – The shape of water
Guillermo Del Toro si spinge dove le tinte scure di Tim Burton non osano andare: tra i mostri brutti, quelli pericolosi – ma anche quelli semplicemente incompresi: l’horror, in fondo, è una forma di fiaba non addomesticata. Dopo «La spina del diavolo», il regista messicano torna ad affrontare la Guerra Civile Spagnola con «Il labirinto del fauno» e si porta a casa i suoi primi tre Oscar: fotografia, scenografia e trucco. Comincia così una carriera che si sposta costantemente tra film sci-fi ad alto tasso di effetti visivi e film gotico-fantasy dalla messa in scena manierista, tra «Pacific Rim» e poi «Crimson Peak», con incursioni nella TV tradizionale di FX e quella on-demand di Netflix. «La forma dell’acqua» è una consacrazione: Leone d’Oro a Venezia, 2 Golden Globes, 3 BAFTA e adesso 13 nomination ai Premi Oscar – ma attenzione: essere un fantasy non sempre gioca a favore della pellicola; i film “di genere”, come anche il musical dell’anno scorso, non riescono mai ad avere la meglio sui cari vecchi classici drammi. Se però Del Toro dovesse vincere la statuetta come miglior regista, sarebbe il terzo messicano in cinque anni.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Una madre che deve vendicare la morte feroce della figlia di cui non trova giustizia; un marito violento scappato con una molto più giovane; un poliziotto buono, uno cattivo, la redenzione. Il drammaturgo britannico Martin McDonagh, nome adorato del teatro inglese, gioca ancora una volta con i cliché del cinema “crime”; vinse il suo primo Premio Oscar nel 2006 con il cortometraggio «Six shooter», poi tornò al Dolby Theatre grazie alla sceneggiatura grottesca di «In Bruges – La coscienza dell’assassino» che già aveva ricevuto tre nomination ai Golden Globes e il premio per l’attore protagonista Colin Farrell. McDonagh si è poi dedicato al teatro, realizzando in dieci anni una sola altra sola pellicola, «7 psicopatici», sempre con Colin Farrell ma accolto più tiepidamente. Suo fratello John Michael, intanto, sperimentava col cinema. L’esperienza con gli attori e con i loro personaggi è evidente, adesso, in «Tre manifesti a Ebbing, Missouri», dove Frances McDormand fa compagnia al duo già consolidato Sam Rockwell& Woody Harrelson; tutti e tre sono nelle cinquine dei migliori attori, e i primi due hanno grandi probabilità di vincere. Le nomination dei «Tre manifesti» agli Oscar di quest’anno sono 7 in tutto: oltre al film, alla sceneggiatura e ai tre attori – il miglior montaggio e la colonna sonora di Carter Burwell: a sorpresa, McDonagh è stato tagliato fuori dalla migliore regia.
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