Quando il Truman Burbank di Jim Carrey arriva con una piccola barca alla fine del suo mondo e trova il modo di scappare dal reality show di cui è stato protagonista inconsapevole per tutta la sua vita, quello che ci pervade è allo stesso tempo un sentimento di felicità per la libertà che ha appena conquistato, accompagnato da uno stato d’inquietudine per ciò che lo aspetta al di là della porta dietro cui sta per uscire di scena: la vita reale.
Era il 5 giugno 1998 quando «The Truman Show», cult firmato Peter Weir, compariva per la prima volta nei cinema statunitensi, alla sua prima mondiale. Nel 1998 Clinton è protagonista del Sex Gate, moriva Lucio Battisti, Pantani vinceva il Giro d’Italia, mancavano 7 anni al lancio della prima versione di Facebook, 10 anni all’uscita del primo iPhone, 12 alla creazione di Instagram. Il mondo insomma non era proprio quello che conosciamo oggi, soprattutto quello della comunicazione. E nonostante siano stati diversi i registi che hanno provato a parlarci di futuro, mostrandocelo nei loro aspetti più neon-cyborg-tecnologici, è strano pensare come sia stato questo piccolo film, ispirato a un classico della letteratura come «1984» di George Orwell, a raccontarci più di altri come sarebbe stato il ventunesimo secolo. Sotto diversi aspetti.
Il reality show
Innanzitutto «The Truman Show» ci ha ha parlato di una forma d’intrattenimento televisivo, quella del reality show, che avrebbe preso piede negli anni successivi grazie a format come «Grande Fratello», sovvertendo il ruolo dello spettatore, che da fruitore passivo si sarebbe trasformato in partecipante attivo.
«Siamo veramente stanchi di vedere attori che ci danno false emozioni, esauriti da spettacoli pirotecnici o effetti speciali. Anche se il mondo in cui si muove è in effetti per certi versi falso, simulato. Non troverete nulla in Truman che non sia veritiero. Non c'è copione, non esistono gobbi. Non sarà sempre Shakespeare, ma è autentico. È la sua vita» dice Christof, anticipando i tempi televisivi. Il suo personaggio è quello del deus ex machina interpretato dall’algido Ed Harris che è contemporaneamente creatore del mondo di Truman, sorvegliante e autore della sua esistenza, padre che senza consenso dà il proprio figlio in pasto alle masse perché si nutrano delle sue gioie e dei suoi dolori, trovando nella sua vita tranquilla uno scopo per la propria. La filosofia alla base del format "reality", perlomeno nella sua forma originaria, prima che il suo obiettivo passasse dall’immedesimazione alla spettacolarizzazione.
La variabile umana
Il problema in «The Truman Show» subentra quando è Truman - chiamato così proprio per sottolineare la sua essenza di true-man (vero-uomo) - a capire che la sua esistenza è tutta un inganno che per lui non esiste libero arbitrio, ma solo una trama architettata nel dettaglio.
Succede quando s’innamora, ovvero quando in gioco entra un elemento umano non programmabile. A quel punto Truman capisce, impazzisce come un animale in gabbia e infine progetta la sua fuga.
«Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te: le stesse ipocrisie, gli stessi inganni; ma nel mio mondo tu non hai niente da temere» prova a convincerlo Christof, ma Truman decide che la sua libertà individuale è più importante della sicurezza, della fama e dell’illusione.
Una volta che Truman è uscito di scena il suo pubblico applaude mentre lui lo saluta per l’ultima volta con il ritornello che scandiva all’inizio di ogni nuova giornata del programma. Ce l’ha fatta:tutti possono credere in un cambiamento, basta volerlo.
Poi il suo pubblico cambia canale. Come a simboleggiare che quello che sembrava l’essenza delle loro giornate in verità non lo è, che nulla è davvero così importante.
Truman e i social media
Nella social media era rivedere la fuga di Truman da quell’ipnotico mondo costruito, dalla sua comune routine in cui è difficile capire dove comincia la realtà e finisce l’artificio, dà davvero da riflettere.
All’uscita del film nel 1998 non sappiamo quanti avrebbero potuto immaginare che, vent'anni dopo, tutti sarebbero stati in possesso degli strumenti per diventare tanti piccoli Truman. Con la differenza che oggi non c’è nessun Christof a controllare che tutto vada per il meglio: ogni aspetto del gioco è sulle nostre spalle. Quello che vogliamo far vedere della nostra vita, come lo vogliamo mostrare e perché.
Di Truman, dunque, rischia di rimanerci la gabbia dorata, ma non la giustificazione dell’inconsapevolezza che abbiamo eretto una sovrastruttura, che prima o poi potrebbe andarci stretta.
E se fino a oggi per noi la decisione è stata arbitraria, per le future generazioni potrebbe non esserlo. Come finirà? Truman ci ha insegnato che la massa dimentica facilmente, che come è partecipativa nella gioia e nel dolore finché una storia le appartiene, così sa voltare pagina molto più velocemente di quanto si creda. La massa ha bisogno di eroi che costruisce e distrugge. Il dato di fatto, però, è che sono le ripercussioni - positive e negative - del singolo, di colui che ha condiviso la sua vita con tanti sconosciuti, quelle di cui la massa non è portata a tenere in considerazione.
Cosa sarà accaduto a Truman varcata la porta?
La parte di questa storia che ci manca conoscere, infatti, non è tanto la risposta delle masse all’abbandono di Truman, quanto ciò che è accaduto a lui una volta uscito di scena, una volta che il copione della sua vita non è più stato condizionato da un media. La libertà, l’amore vero, la cessata popolarità (di cui comunque lui era inconsapevole) l’avranno reso felice? O ha scoperto, suo malgrado, che è proprio l’infelicità il prezzo da pagare per essere liberi? Si è pentito di essere uscito dalla sua prigione piena di comfort o è comunque felice?
Creare un sequel di «The Truman Show» imporrebbe di rispondere a domande esistenzialiste troppo grandi. Rimane il fatto che è incredibile come questo film, nei vent'anni che ci separano dalla sua uscita in sala, si sia sempre più avvicinato al presente, mentre il nostro sguardo di spettatori nei suoi confronti è mutato radicalmente. Se nel 1998 la storia di Truman ci sembrava assurda, oggi non ci sconvolge poi molto. È una metafora del nostro presente.
E allora, visto che sull'oggi «The Truman Show» ci aveva beccato, teniamoci stretto anche il messaggio positivo che il suo protagonista ci lancia su un futuro imprecisato. Quando a bordo della sua piccola barca sfida la tempesta che il suo creatore abbatte su di lui, tenace e risoluto a conquistare una vita nuova: è grazie al coraggio e alla speranza che anche un semplice uomo può contribuire a sconfiggere i mali della propria epoca.
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