Neri Parenti: «Ecco come sono diventato il re dei cinepanettoni»

Il regista racconta la sua grande carriera nel cinema italiano: dalla “gavetta” ai film con Paolo Villaggio, fino ai successi natalizi

Neri Parenti
19 Aprile 2021 alle 08:40

Laurea in Scienze politiche, bilingue (la madre era inglese), ex assistente di Pasquale Festa Campanile e di Steno, sceneggiatore e regista di una grande fetta della filmografia di Paolo Villaggio, professionista del cinepanettone.

Neri Parenti con i suoi film ha fatto ridere milioni di italiani, arricchire i produttori, disperare i critici e perfino fatto arrabbiare il Vaticano per una scena in cui Boldi e De Sica, sugli sci, investivano il Papa.

Suo padre era il noto economista Giuseppe Parenti, che è stato Rettore dell’Università di Firenze. Impegnativo.
«Eccome! Fra le tante cose, è stato uno degli artefici del Piano Marshall e ha fatto il censimento in Cina. Ha avuto un po’ a che fare anche con lo spettacolo partecipando alla creazione del Servizio opinioni, il precursore dell’Auditel. Un personaggio importante, sempre in giro per il mondo. Io e i miei fratelli davamo ai cagnolini nati in sua assenza i nomi dei ministri dei posti in cui si trovava in quel momento. Non mi stupisce che nessuno di noi abbia seguito le sue orme».

Come ci è finito sui set?
«Volevo fare il critico. Nel 1971, grazie a un contratto di apprendistato come giornalista alla Rai, sono capitato su un set di Giuseppe Patroni Griffi, “Addio fratello crudele”. Era il primo film che la Rai coproduceva e il mio compito era di fare una specie di report settimanale. Gli attori erano quasi tutti stranieri e il mio inglese si rivelò prezioso: l’organizzatore capì che era utile questo ragazzetto che poteva parlare con gli attori e farsi capire, o scrivere una lettera in maniera corretta. E così mi prese come assistente di produzione».

Partenza dalle retrovie.
«Ho visto come funzionava. Guardavo e imparavo. Ho lavorato con tanti registi, soprattutto con Pasquale Festa Campanile. Gli facevo pure da autista e a un certo punto, sul set di “Conviene far bene l’amore”, mi ha promosso aiuto regista. Io del film sapevo tutto, è stato un passaggio semplice. Inoltre mio padre, che considerava questo mestiere una buffonata, vedendomi alzare alle 4 e tornare tardi, ha capito che il mio era un vero lavoro».

Nel 1979 il primo film da regista, il dimenticabile “John Travolto... da un insolito destino”.
«In realtà la prima esperienza è stata sul set di “Piedone l’africano”, in Sudafrica: ho rimpiazzato il regista della seconda unità, che si era infortunato. Scene d’azione, mica tramonti. Un lavoro apprezzato».

Sì, ma John Travolto?
«Era esploso il “travoltismo”. Lucherini, il famoso addetto stampa, scovò in un ristorante di Venezia ’sto cuoco, Giuseppe Spezia, che somigliava a Travolta in modo impressionante. Goffredo Lombardo decise di fare una parodia di “La febbre del sabato sera” e mi chiamò. Il cast era un ricettacolo di raccomandati. Io, con l’incoscienza del primo film, accettavo tutto e il risultato fu bruttissimo. Non solo gli attori erano degli... inesperti, diciamo così, ma il cuoco non sapeva neppure ballare. Abbiamo dovuto trovare le controfigure e filmare i piedi... un macello».

Un disastro?
«La mia fortuna! Accadde che il giorno dell’uscita, in un cinema deserto di Roma entrarono 30 cinesi che, non leggendo l’italiano, pensavano fosse un film del vero John Travolta. Lombardo capì che avrebbe potuto fregare tutto l’Est del mondo e il film, che in Italia aveva incassato due lire, fu venduto all’estero per 200 milioni. Per Lombardo fu un grosso affare e io entrai nelle sue grazie. Così, quando Paolo Villaggio decise di dirigersi da solo, Lombardo gli propose me come aiutante».

Villaggio era uno ostico.
«Più nella vita che nella professione. Ci ho fatto 18 film, mai una discussione, mai uno screzio. Siamo andati d’amore e d’accordo, forse perché in 15 anni saremo stati a cena tre volte. C’era una forte differenza d’età, eravamo due mondi che s’incontravano e si completavano solo sul lavoro. Lui era un po’ discolo, spariva. E non gli andavano mai bene le sceneggiature. Allora cambiavamo la prima pagina e lui: “Ah, ora sì che è perfetta!”».

Parliamo dei cinepanettoni.
«Nel 2001 mi chiamò De Laurentiis, che aveva fatto tutti i film di Natale con i Vanzina: loro si erano messi in proprio e avevano ridotto l’impegno. Poi Aurelio e i Vanzina si sono separati del tutto e io invece sono rimasto. Era una gabbia dorata: i film andavano bene, i guadagni erano enormi, quindi ho continuato a farli».

Aurelio, altro personaggio complicato.
«Ma anche spassoso. Ricordo che giravamo al tempo in cui aveva da poco acquistato il Napoli e in albergo, a Gstaad, visionava i possibili allenatori. Sbagliava tutti i nomi: c’era questo Vavassori che lui chiamava sempre Valvassori. Non so adesso ma di calcio, allora, capiva poco. Mi parlava degli acquisti e io gli chiedevo: “In che ruolo gioca?”. E lui: “10”. “Sì, ma in che ruolo?”».

I suoi film sono stati accusati di esseri volgari.
«È vero, lo sono. Pensavamo che fossero destinati a una fascia di pubblico poco disturbata dalla parolaccia o dallo sconcio. Inoltre, capitava che andavi a vedere i film e ti accorgevi che la cosa che faceva crollare la sala era proprio quella. Allora nel successivo si rincarava la dose. A volte s’è proprio esagerato...».

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