30 anni fa l’attentato che sconvolse tutta l’Italia

Sono passati 30 anni dalla strage di Capaci con cui la mafia dichiarò guerra allo Stato

23 Maggio 2022 alle 08:09

A Palermo lo chiamano l’Attentatuni. Un accrescitivo di “attentato”, che restituisce la portata di quell’evento enorme: un cratere devastante nel tratto di autostrada fra l’aeroporto di Punta Raisi e la città, e un cratere emotivo nella coscienza dei siciliani e degli italiani tutti. Sono passati 30 anni dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992.

Cosa nostra ordinò di eliminare il giudice antimafia Giovanni Falcone. Alle 17.57, in un pomeriggio afoso, una carica di esplosivo di una potenza pari a quella di 500 chili di tritolo squarciò l’asfalto su cui transitavano tre Fiat Croma blindate. Oltre a Falcone, morirono quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, pure lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Non possiamo dimenticare l’Attentatuni, perché fu una dichiarazione di guerra allo Stato e aprì la dolorosissima stagione delle stragi: 57 giorni dopo in via D’Amelio, a Palermo, perse la vita il giudice Paolo Borsellino. Poi le bombe: in via dei Georgofili a Firenze, in via Palestro a Milano...

Da vedere in tv per non dimenticare

Ecco i programmi che ricordano i 30 anni dalla strage di Capaci.

  • venerdì 20 maggio prima in seconda serata e poi in replica il 22 maggio alle 9.15, su Raidue c’è una puntata di “O anche no” in cui Paola Severini Melograni intervista Maria Falcone, la sorella del magistrato.
  • domenica 22 maggio in seconda serata su Rete 4 c’è il docufilm “Falcone, Borsellino e gli altri” sui 57 giorni fra le stragi di Capaci e via D’Amelio.
  • lunedì 23 maggio alle 10 in diretta su Raiuno inizia la commemorazione, con il Presidente della Repubblica. Alle 21.15, il documentario “Arte vs mafia” su Sky Arte dà voce agli artisti siciliani contro la mafia, mentre La7 trasmette il film del 1993 “Giovanni Falcone” e, a seguire, lo speciale di Massimo Giletti “Abbattiamoli - Chi ha voluto le stragi di cosa nostra”.

Ne parliamo con due giornalisti che hanno vissuto sulla propria pelle tutta la violenza di quel periodo: Maurizio Costanzo, scampato a un attentato mafioso a Roma nel 1993, e Lirio Abbate, che il 23 maggio del 1992 era a Capaci a raccontare i fatti. E che da anni vive sotto scorta per le minacce ricevute dai boss.

Maurizio Costanzo: «Ancora oggi il giudice Falcone è un grande esempio»

Giovanni Falcone lo considerava «una persona perbene», un giornalista stimato e impegnato nella lotta contro la mafia. Per questo il giudice palermitano simbolo della legalità è andato ospite più volte al suo storico show. E oggi, a 30 di distanza dalla strage di Capaci, Maurizio Costanzo ripercorre con Sorrisi quella stagione dolorosa per il nostro Paese.

Costanzo, che cosa ricorda del 23 maggio 1992?
«Non ricordo dove mi trovavo o che cosa stessi facendo alle 17.57, l’ora dell’esplosione. Ma ricordo molto bene lo sgomento che seguì alla notizia della strage, di una violenza inimmaginabile. Lo sgomento per cosa significava un attentato di quella portata contro lo Stato».

Chi era Giovanni Falcone?
«Era una persona stupenda, specchiata. E aveva una grandissima forza d’animo».

E che cosa rappresentava per l’Italia in quel particolare momento storico?
«Falcone era il vero magistrato antimafia».

Oggi la sua figura è ancora un simbolo o è stata dimenticata?
«Sì, è ancora un simbolo. Grazie anche al lavoro della sorella Maria, docente e attivista, che ha istituito la Fondazione Falcone. Lei tiene viva la sua memoria con tante iniziative importanti. Abbiamo collaborato anche quando feci uno speciale del “Costanzo Show” da Palermo, dopo il 19 luglio, quando fu ucciso anche il giudice Paolo Borsellino, in quella tragica stagione delle stragi di mafia».

Pochi mesi prima dell’attentato al giudice Falcone, lei organizzò la storica diretta televisiva con Palermo, in accoppiata con Michele Santoro, per l’uccisione per mano mafiosa dell’imprenditore Libero Grassi, che si era ribellato al pagamento del pizzo.
«Televisivamente fu una cosa senza precedenti. Una staffetta tra Santoro e il suo “Samarcanda” e il “Costanzo Show”. Era il 26 settembre del 1991. E Falcone sedeva sul palco come mio ospite al Teatro Parioli. C’era chi gridava allo scandalo, per il magistrato antimafia al Parioli, pensate un po’. Nel mio ufficio tengo la foto di Falcone da me quella sera, quando feci quel gesto forte, simbolico, di bruciare una maglietta con la scritta “Mafia made in Italy”».

Lei lo ha conosciuto e ci ha parlato tante volte: com’era Giovanni Falcone umanamente?
«Era molto attento a ciò che diceva, alle parole che usava, non era mai facilone nei commenti, perché sapeva che ogni sua frase poteva dare un messaggio o un segnale importante. E ricordo il suo sorriso, un sorriso tipico siciliano».

Le sue trasmissioni contro la mafia hanno dato fastidio a Cosa nostra. I boss la minacciavano.
«Se è per questo, da loro ho ricevuto anche 40 chili di tritolo, l’anno dopo. In via Fauro, a Roma, mentre ero in macchina con mia moglie (Maria De Filippi, ndr)».

Pensa di essere tuttora nel mirino del latitante Matteo Messina Denaro e soci?
«Voglio augurarmi di no. Penso che Messina Denaro abbia altri affari a cui pensare. Ma non sono un “mafiologo” e quindi non lo so».

Il giorno dei funerali di Falcone, il 25 maggio 1992, dedicò la puntata del “Costanzo Show” all’attentato. E ha ricordato vari anniversari della strage di Capaci. In che modo la tv oggi può combattere contro Cosa nostra?
«Tenendo vivo il problema. Bisogna mantenere alta l’attenzione sul fenomeno mafioso. Così come lo abbiamo fatto Santoro e io 30 anni fa, oggi possono farlo altri».

Lirio Abbate: «La mafia ha soltanto cambiato pelle»

«Luce, caldo, rumore». Sono queste le sensazioni fisiche che il giornalista Lirio Abbate, direttore del settimanale “L’Espresso”, associa alla strage di Capaci. E le ripete, come un mantra, quando nel suo nuovo libro, “Stragisti” (Rizzoli, 18,50 euro), racconta i fatti e le menti (criminali) che hanno sconvolto il nostro Paese nei primi Anni 90. Lui era un giovane cronista quel 23 maggio del 1992 e dell’attentato al giudice Giovanni Falcone fu un testimone oculare. «Scrivevo di cronaca nera e giudiziaria dalla provincia di Palermo per il “Giornale di Sicilia”. E dalla redazione mi chiamarono al telefono perché avevano saputo che c’era stata un’esplosione in autostrada, all’altezza di Capaci, vicino a un cementificio. “Vai a vedere di che si tratta” mi dissero. Mi precipitai».

E cosa si trovò davanti agli occhi?
«L’inferno. E la rabbia, la disperazione, lo sconforto. Oggi, purtroppo, siamo fin troppo abituati a vedere le scene di guerra. E quel cratere in mezzo all’autostrada, in tv, lo abbiamo rivisto migliaia di volte. Ma allora fu uno shock: nessuno avrebbe potuto immaginarsi una cosa del genere. O che la stessa scena di guerra si sarebbe ripetuta 57 giorni dopo con la strage di via D’Amelio, dove morì il giudice Paolo Borsellino».

Qual è il significato storico della strage di Capaci?
«Capaci è stata lo spartiacque che ha cambiato il corso politico del Paese e il “Dna” di una parte di siciliani che non vedevano in Cosa nostra il male o non credevano che esistesse. In quel momento, assieme a tutti gli italiani, si sono resi conto che la mafia esisteva eccome».

Perché il giudice Giovani Falcone era nel mirino dei mafiosi?
«Falcone era il loro nemico storico perché fu il magistrato che, con un solo procedimento giudiziario, il Maxiprocesso di Palermo, riuscì a dare l’ergastolo ai capi della mafia. Quindi tutti i membri della “Commissione” di Cosa nostra, detta anche “Cupola”, ovvero il boss dei boss Totò Riina e i suoi soci, decisero che bisognava abbatterlo. E così facendo hanno dichiarato guerra allo Stato».

Chi è stato condannato per gli attentati del 1992?
«Riina, Giovanni Brusca, che ha premuto il tasto del telecomando a distanza per far esplodere tutto, e altri boss corleonesi. E sono in carcere all’ergastolo al 41 bis i boss di Brancaccio (PA), i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Ma tra i mandanti delle stragi c’è anche il superlatitante Matteo Messina Denaro».

La verità sulle stragi è accertata fino in fondo?
«Giudiziariamente, è stato accertato che le stragi dei primi Anni 90 sono state eseguite da Cosa nostra, che ha avuto accanto a sé un’entità esterna che le ha suggerite. Su questo si sta indagando: qualche tassello manca».

Cosa nostra tornerà a usare le bombe?
«Lo escluderei. Quella mafia lì non esiste più, ha cambiato pelle. Non ci sono segnali che indicano un ritorno a quella strategia. Ma ciò non vuol dire che sia diventata meno pericolosa. Anzi. La mafia si infiltra ovunque: inquina l’economia legale, “dopando” le imprese e le attività politiche».

I mafiosi comandano pure dal carcere?
«Succede di tutto. Nel libro racconto che i fratelli Graviano, nonostante l’isolamento, in carcere hanno concepito due figli! E ora c’è un altro rischio».

Quale?
«La Corte Costituzionale ha stabilito che l’ergastolo a vita è incostituzionale: tutti hanno diritto, dopo 26 anni di carcere, a permessi premio e sconti di pena. Cosa finora valida sempre, tranne che per chi è al regime di 41 bis (il carcere impermeabile, che non consente rapporti con l’esterno). La Corte ha dato un anno di tempo al Parlamento per fare una legge che però, a oggi, non è arrivata».

Quindi i boss al 41 bis potrebbero uscire?
«Mi auguro di no. Sarebbe gravissimo se quelli che non si sono mai dissociati, proprio come i Graviano, fossero equiparati ai mafiosi diventati collaboratori di giustizia, riuscendo a ottenere gli stessi benefici».

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