Bruno Vespa ci presenta il suo nuovo libro «Rivoluzione»

Dopo diversi volumi dedicati alla storia e al costume, torna ai libri di cronaca politica. «Quello che è successo con le elezioni del 4 marzo è talmente clamoroso che meritava una riflessione e un racconto dei retroscena» spiega il giornalista

Bruno Vespa
13 Dicembre 2018 alle 16:21

Dopo diversi volumi dedicati alla storia e al costume, con «Rivoluzione» Bruno Vespa torna ai libri di cronaca politica. «Quello che è successo con le elezioni del 4 marzo è talmente clamoroso che meritava una riflessione e un racconto dei retroscena» spiega il giornalista. «Mentre i miei libri di cronaca dal 2006 in poi vendevano meno dei libri storici e di costume, questo invece sta andando benissimo».

Quali sono le pagine più importanti secondo lei?
«Quelle in cui ho ricostruito i retroscena della nascita del governo, un vero romanzo d’avventura. E il capitolo sul rancore sociale, che è una delle ragioni dell’esito del voto. All’epoca della mia generazione cercavamo tutti di migliorarci, di emulare quelli che stavano meglio di noi; oggi l’invidia sociale è diventata molto diffusa per cui se non riesco a salire al tuo livello vorrei che tu scendessi al mio. E poi il capitolo sul Mezzogiorno d’Italia, perché smitizza alcune cose sul periodo dell’Unità, e racconta come dopo gli Anni 70 e la Cassa del Mezzogiorno c’è stato un crollo che ha portato al voto a favore dei Cinque Stelle».

Cos’è una «rivoluzione»?
«Un cambiamento di sistema. Nell’Italia repubblicana non era mai successo niente del genere. Berlusconi aveva fatto una rivoluzione politica ma interna, secondo regole condivise anche in Europa. Il nuovo governo ha invertito il discorso, ha detto che prima vengono i bisogni e poi si cercano i soldi, anche a rischio di non far quadrare i conti».

E qual è stata la rivoluzione personale di Bruno Vespa?
«Quando ho vinto il concorso alla Rai, nel 1968. Allora ero un ragazzo di provincia, lavoravo al “Tempo” a L’Aquila, non pensavo di fare televisione. Mio padre era invece sicuro che avrei vinto il concorso, e scommettemmo un televisore a colori. Persi la scommessa ma non potei pagarla: quando nel 1977 in Italia fu introdotta la tv a colori mio padre non c’era più. Di quel concorso ho appena celebrato il cinquantenario con i colleghi superstiti».

Il libro è proprio dedicato a loro. Chi altri c’era?
«C’era Angela Buttiglione, la prima donna ad andare in video al tg; Nuccio Fava, poi direttore di Tg1 e Tg3; e Bruno Pizzul, il grande telecronista. Fu un concorso abbastanza straordinario, perché cercavano degli “animali” da cronaca, giornalisti con buona dizione, qualità di linguaggio e con grande capacità d’improvvisazione. A un mio collega dissero: “Ci parli del suo primo amore in 60 secondi. Pronto, via!”. Io invece fui portato in un palazzo romano che non conoscevo: “Tra cinque minuti s’inaugura l’anno di studi su Giambattista Vico e lei dovrà fare la telecronaca”. Dovevamo improvvisare così, partendo da niente».

Al Quirinale, nei ministeri, insomma nei palazzi del potere, gli inquilini cambiano continuamente. Forse gli unici che rimangono sono i portieri, gli uscieri…
«E infatti con loro faccio sempre grandi rimpatriate. “Lei da quanti presidenti sta qui?” Il posto che io preferisco è il Ministero dell’Economia, in via XX settembre, dove i commessi hanno ancora la marsina. È una cosa che mi piace molto, perché credo che uno Stato si riconosca anche da come vestono i commessi».

Quanto dipendono i libri da «Porta a porta»?
«Salvo casi eccezionali sono due mondi totalmente indipendenti. Io ricomincio sempre da capo come se nulla fosse accaduto, e scavo, scavo, scavo. Come fanno quelli che raccolgono le mine inesplose: passati gli eserciti, passati i colleghi dei giornali, io cerco quello che è sfuggito».

Come reagiscono i politici a ciò che leggono?
«Mai avuto richieste di rettifica. Ma sono contenti di esserci. Il premier Giuseppe Conte, per esempio, che finora non è venuto a “Porta a porta”, ha voluto essere nel libro, dedicandomi due ore del suo tempo per rispondere alle mie domande».

Quando scrive Bruno Vespa?
«Essendo per natura piuttosto incostante, non riesco mai a stare seduto più di un certo periodo di tempo. Scrivo una pagina e mi alzo, poi ne scrivo un’altra. Ma scrivo a tutte le ore, tranne che di notte, e un po’ ovunque, anche sul treno o in aereo. Il mio modello è Indro Montanelli nella famosa foto con la macchina da scrivere sulle ginocchia».

Chi legge per primo il dattiloscritto?
«A volte mia moglie… Qualche volta mio fratello, che è un micidiale rinvenitore di inesattezze. Ma alla Mondadori ho una squadra che mi segue da più di vent’anni, sempre con la stessa editor. Sono scrupolosissimi nella revisione delle bozze, e velocissimi. Questo libro l’ho chiuso alle 10 del 3 novembre, alle 12 l’ha chiuso anche la editor e alle 15.30 mi hanno mandato il filmato della rotativa che lo stava stampando».

Le edizioni successive hanno poi correzioni o aggiornamenti?
«No, rimangono sempre come la prima».

Non c’è il rischio che siano libri «a scadenza», troppo legati all’attualità?
«Gli specialisti dicono che questi libri sono destinati alla storia d’Italia. Se vai a vedere il primo della serie, “Telecamere con vista” del 1993, ritrovi un mondo che non c’è più. Esistono pure parecchi collezionisti di questi volumi…».

Li hanno tutti?
«Così mi dicono. Vengono alle presentazioni o in altre occasioni pubbliche a farseli firmare. A volte il libro che si portano dietro da autografare è di dieci anni prima».

Cosa farà Vespa durante le Feste?
«Andrò come sempre in montagna, a passeggiare sulla neve con le ciaspe».

Un regalo di Natale ai nostri politici?
«Mmmm… Chiedo consiglio qui ai miei colleghi (si consulta con la sua redazione, ndr). Una calcolatrice. Una palla di vetro. Anzi, un “Navigator”, come quello annunciato da Di Maio a “Porta a porta”. Quando i miei figli erano piccoli avevano dei pupazzi che si chiamavano così…».

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