Bruno Vespa, un libro solo che fa per tre

Indaga su Benito Mussolini, Covid e attualità. Si tratta del secondo volume di una trilogia dedicata a Benito Mussolini: “Perché l’Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus)”

Bruno Vespa
10 Dicembre 2020 alle 14:08

Puntuale come il Natale, anche quest’anno è arrivato il nuovo libro di Bruno Vespa. Si tratta del secondo volume di una trilogia dedicata a Benito Mussolini: “Perché l’Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus)”, Mondadori, 20 euro, già alla terza ristampa. In realtà, però, è come se fossero tre libri in uno: «È un’offerta irripetibile (ride). Sì, è vero, sono otto capitoli su Mussolini, ma altri sei sono sul Covid e sull’attualità politica» ci spiega.

Mussolini e Covid nello stesso libro. Qual è il nesso?
«Sono due dittature. Una visibile e una invisibile. Nel libro faccio l’esempio di piazza Venezia a Roma. Quando c’è stata la proclamazione dell’impero da parte di Mussolini, la piazza era così gremita che non sarebbe passato neppure uno spillo. Quando ci sono passato il 3 maggio scorso, prima della riapertura parziale, era totalmente vuota e deserta. Uno spettacolo allucinante».

Partiamo dai capitoli dedicati a Benito Mussolini. Di che cosa trattano?
«Dopo l’ascesa, di cui ho parlato nello scorso libro, qui mi dedico agli anni del consenso (dal 1926 al 1936) che ebbe sia a livello internazionale (perfino Gandhi andò a prendere un tè con lui) che popolare grazie a una serie di iniziative sociali: fondò l’Inps, il Coni, le colonie marine per bambini, il dopolavoro… Tutto questo creò un consenso straordinario. La cosa curiosa è che la gente cominciò a distinguere Mussolini dal movimento politico: le cose belle le faceva lui, le brutte il fascismo. Poi, come sempre accade quando ci sono personalità forti, una schiera di intellettuali lo trasformò in una divinità, ritraendolo con un linguaggio usato nei testi sacri. È una parte della storia che la gente ignora».

Poi c’è la parte dedicata al Covid. Quanto ha girato per incontrare le persone che ha intervistato?
«Sono andato a Codogno, Nembro, Alzano, Bergamo: la cosa che più mi ha colpito qui è stato il cimitero. Sembrava un cimitero di guerra. Ho visto il forno crematorio che funzionava 24 ore al giorno senza riuscire a smaltire la gran numero di morti. Ma ho scoperto anche un’Italia straordinaria, quella dei piccoli centri, che funzionano in maniera perfetta».

Nel libro mi ha molto colpito la frase di un’infermiera di Bergamo: «Il Covid ha provocato tanti morti, ma anche tanti morti vivi». Chi sono?
«È la cosa più dolorosa. Ci sono due tipologie di “morti vivi”. La prima sono i parenti delle vittime che sono rimasti sconvolti dalla cosa più terribile: non aver potuto salutare i propri cari. C’è una quantità gigantesca di persone che oggi è in cura psicologica per questo motivo, e che ancora non riesce a parlarne».

E il secondo tipo?
«Sono i pazienti che guariscono ma che non sono più gli stessi. Hanno cambiato carattere, sono irriconoscibili. Quando ci si avvicina così tanto alla morte, niente può essere più come prima».

Come si fa a chiudere un libro di attualità quando ci sono continui aggiornamenti?
«Bisogna mettere un punto fermo, ma in modo che il libro non invecchi. Io faccio sì che il lettore abbia un panorama completo della situazione per capire gli sviluppi».

Nella dedica ha definito sua moglie Augusta «il mio lockdown volontario da 45 anni». Una bella dichiarazione d’amore.
«In quel “volontario” c’è tutto (ride di gusto). Significa che mi sono consegnato e sono ancora felicemente consegnato da 45 anni».

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