Gaia Tortora: «Papà mi ha insegnato che la libertà non ha prezzo»

A 40 anni dall’arresto del padre Enzo, pubblica un libro sul caso di malagiustizia che ha travolto la sua vita

15 settembre 1986: il giorno dell'assoluzione di Enzo Tortora, qui alla finestra tra le figlie Gaia e Silvia
23 Marzo 2023 alle 08:11

All’alba del 17 giugno del 1983 Enzo Tortora, amato e indimenticato conduttore di “Portobello”, venne prelevato dalla sua stanza all’hotel Plaza di Roma, e trasferito alla caserma di via In Selci, vicino al Colosseo. Iniziò così uno dei più clamorosi casi di malagiustizia italiana. L’arresto di Tortora, che da innocente ha dovuto sopportare 1.185 giorni tra carcere e domiciliari in un clima di gogna mediatica, era stato eseguito nell’ambito di un maxiblitz della Procura di Napoli sulla base delle dichiarazioni di due pentiti, ex affiliati alla Nuova camorra organizzata guidata da Raffaele Cutolo.

Quel giorno Gaia Tortora, oggi vicedirettore del tg di La7 e conduttrice di “Omnibus”, era poco più di una bambina: «Avevo 14 anni e quella mattina dovevo fare l’esame di terza media» dice. Quarant’anni dopo, la giornalista racconta l’evento che le ha stravolto la vita nel libro “Testa alta, e avanti”. Sottotitolo: “In cerca di giustizia, storia della mia famiglia” (Mondadori).

Gaia, lei andò a fare l’esame ignara di tutto.
«Dovevo essere la sesta interrogata, ma i professori mi chiamarono per prima e mi liquidarono in fretta. Mi sono insospettita quando ho visto che mia sorella Silvia era venuta a prendermi, perché non volevo nessuno all’orale. E lì mi sono agitata, credevo che fosse successo qualcosa a mia madre. Invece Silvia mi disse: “Non si tratta di mamma, ma di papà. Non ti preoccupare, si risolverà tutto presto”».

Qual è stata la sua prima reazione alla notizia dell’arresto di suo padre?
«Il mutismo: mi sono congelata. Quando ho visto papà con le manette al Tg2, non potevo credere che il mostro dipinto nel servizio, il camorrista e lo spacciatore, fosse lui. Nessuno di noi ha mai dubitato per un solo istante della sua innocenza, mai. Allora mi sono rinchiusa nella mia stanza, non riuscivo a parlare, né a piangere, mi sono sdraiata sul letto a guardare il soffitto, non ricordo per quanto».

Chi le è stato vicino?
«Piero Angela, caro amico di famiglia. A ora di pranzo è arrivato a casa nostra, che si era trasformata in una “war room” (stanza di guerra in inglese, ndr), col telefono che squillava in continuazione. Si è seduto sul letto accanto a me e mi ha rassicurato che sarebbe andato tutto bene. Da quel momento ho ripreso a respirare».

Ha definito quel giorno «l’apocalisse».
«Come se fosse scoppiata una bomba atomica. Dentro, fuori e intorno a me. Credevamo che si sarebbe chiarito l’errore, lo scambio di persona, nel giro di poche ore, poi di giorni. Invece sono passate settimane, mesi. Prima il carcere di Regina Coeli a Roma, poi quello di Bergamo, poi i domiciliari a casa di papà, a Milano. Sarebbe bastato fare due verifiche incrociate. Invece si è preferito dar credito alle dichiarazioni di due bestie criminali. E il dolore provocato da questa persecuzione non va mai via».

Lo ha “addomesticato”, questo dolore, nel tempo?
«All’inizio ho fatto finta di non sentirlo. Mi sono anestetizzata perché non avevo alternative. La mia famiglia stava combattendo una battaglia, io dovevo stare bene, non dovevo dare problemi, neanche le piccole cose che affrontano i ragazzi. Poi è arrivata l’assoluzione di papà. Ma la solitudine è una voragine che non ti lascia mai. Perché un “dopo” con papà non l’ho avuto: è morto troppo presto, alla stessa età (59 anni, ndr) di mia sorella, morta l’anno scorso. Mi mancano tantissimo».

Come fa ad andare avanti «a testa alta», come diceva suo padre?
«Sono una persona curiosa, vado alla ricerca di un senso a ciò che ci è capitato. Mi aiutano il buddismo e la psicoterapia. Ma a tenersi tutto dentro, prima o poi si esplode. A me è successo a 40 anni, quando il mio direttore, Enrico Mentana, mi ha chiesto di condurre l’edizione serale del telegiornale. Lì sono iniziati gli attacchi di panico. E ora so che sentirsi fragili non è una colpa».

Nel libro fa un ritratto asciutto di suo padre: sincero, vegetariano, andava a letto presto, mercoledì tappa fissa dal barbiere...
«E i nostri viaggi insieme, ne ricordo uno bellissimo a Bruges, in Belgio. E le cene al ristorante. Lui ordinava spesso i fagioli all’uccelletto. Poi ricordo la telefonata che faceva a me e a Silvia ogni venerdì dopo “Portobello”, per sapere se la puntata ci era piaciuta».

E a voi piaceva?
«Sì, ma eravamo giovani per capire la portata rivoluzionaria del programma. Quella telefonata era una tassa da pagare: poi la serata era libera per uscire, ma alla fine non andavamo da nessuna parte».

Il ricordo più tenero?
«Quando ai colloqui in carcere mi chiedeva di Falcao. Io sono tifosa della Roma, mentre a lui il calcio non interessava. Cercava di distrarmi e strapparmi un sorriso».

Il 20 febbraio 1987 suo papà tornò a “Portobello” e disse: “Dunque, dov’eravamo rimasti?”. Lo vide?
«Certo, ero a casa davanti al televisore come sempre. Ma i suoi occhi non erano quelli di prima, erano spenti. Lui era uscito dal carcere, ma il carcere non è mai uscito da lui».

Lei ha due figlie, cosa sanno del nonno?
«Tutto».

Seguiranno le sue orme?
«Beatrice ha 23 anni e Costanza 21, ma fanno tutt’altro: una studia Psicologia, l’altra frequenta l’Istituto europeo di design».

Cosa le ha insegnato papà e in cosa siete uguali?
«A lavorare con scrupolo e con coscienza. Papà detestava i cialtroni. Anch’io, come lui, dico sempre ciò che penso a ogni costo, perché la libertà non ha prezzo».

C’è un oggetto suo che custodisce gelosamente?
«Le lettere: le conservo in una scatola di metallo e ogni tanto le rileggo».

Scriveva frasi dolcissime, come: “Metti le ali, tortorella, e vola lontana!”.
«Quando le leggevo da piccola erano come carezze. Rileggendole adesso, provo un senso di vuoto: senza di lui è come se mancasse il secondo tempo del film».

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