Johnny Dorelli e la sua autobiografia “Che fantastica vita”

Sorrisi l’ha letta in anteprima e lui ci ha detto: «Ho sentito il bisogno di raccontarmi e mi sono pure divertito. Indimenticabili gli anni vissuti tra grandi star, grandi amori e... gangster!»

Johnny Dorelli
17 Settembre 2020 alle 08:58

Johnny Dorelli non è mai stato uno di tante parole. Soprattutto con i giornalisti e ancora di più se l’argomento della conversazione è Giorgio Guidi, ovvero lui stesso al netto del suo pseudonimo. Il lui privato, familiare, intimo. È per questo che la notizia di una sua autobiografia, “Che fantastica vita”, scritta con Pier Luigi Vercesi e in arrivo per Mondadori il 22 settembre, sorprende e incuriosisce.

Dorelli, perché un libro?
«Ho sentito il desiderio di parlare. Di raccontare qualcosa. Però ho detto solo la verità, non ho inventato nulla. Alla fine mi sono pure divertito».

Una storia che si apre nel 1946 con la partenza in nave da Genova per Nuova York (allora si chiamava così) al seguito di papà, il tenore Nino D’Aurelio, che andava alla conquista dell’America.
«Avevo 9 anni e l’impatto di un bambino di quell’età con una città come New York fu forte. È una città che sgomenta, ti lascia senza fiato. Io, però, non ebbi problemi: mi trovavo bene con mia mamma, con cui passavo gran parte del tempo, perché mio padre era sempre a cantare alla radio italiana Whom, o in giro a fare concerti. La cosa che mi colpì di più furono le banane. A Meda, in Brianza, dov’ero cresciuto, erano piccole, difficili da trovare e potevi averne al massimo due se arrivavi in tempo dal fruttivendolo. In America erano enormi e si trovavano dovunque. Sono stati dieci anni bellissimi. È stata bella la gioventù lì».

Alla radio Whom lavorava anche Mike Bongiorno. Lei e papà lo facevate arrabbiare...
«Sì. Mike era l’unico che riceveva “La Gazzetta dello Sport” e ne era gelosissimo. Io ero molto giovane rispetto a lui, malgrado questo la “Gazzetta” gliela rubavo lo stesso. Cavolo come si arrabbiava! A parte queste goliardate, con Mike c’è sempre stato un buon rapporto: fu lui, imbeccato da papà che tanto gli aveva decantato le mie doti di cantante, il primo a mettermi davanti a un microfono alla radio».

Oltre che di Bongiorno, a New York suo padre era amico anche del grande tenore Giuseppe Di Stefano, del pugile Jake LaMotta e di altre celebrità. Però avete pure avuto incroci pericolosi con la famigerata mafia italoamericana.
«Mi fa effetto pensarci oggi, perché ero giovane e non mi rendevo conto di chi fosse quella gente. Successe che il manager di mio padre morì e il contratto di papà passò a don Paolino Palmieri, il proprietario del ristorante “Zi Teresa” di New York. Non frequentava esattamente stinchi di santo e io non capivo perché lo chiamassero “don” se non era un reverendo. A una cena ci fece conoscere Vito Genovese, il braccio destro di Lucky Luciano (e che dopo la morte del boss prenderà il comando del clan, che assumerà il suo nome, ndr), oltre che l’unico che poteva dargli ordini. Un’altra volta ci portò nella faraonica magione di Joe Barbara ad Apalachin (dove nel 1957 saranno arrestati alcuni dei più noti boss della mafia americana, ndr). Erano gangster divenuti leggendari, ma l’ho capito solo anni dopo».

Lei ha ricevuto un’educazione... prussiana.
«Era un terrificante collegio musicale gestito da un grasso e severissimo istitutore tedesco. Nel libro ne parlo con orrore, ma alla fine è stato utile. Mi è servito moltissimo, perché a lungo andare ti ricordi di tutto quello che ti hanno insegnato e capisci che è importante nella vita».

Da lì, però, è passato alla High School of Performing Arts, quella del film “Saranno famosi”.
«Che purtroppo non ho potuto finire perché scadde il nostro permesso di soggiorno e fummo costretti a rientrare in Italia. Però sono stati anni bellissimi, per la musica, per tutto: pensi che il mio compagno di banco era il figlio di Freddie Green, il chitarrista di Count Basie, un mito del jazz».

Nel 1955 tornate in Italia e dovete ricominciare tutto da capo.
«Fu dura. In America, spinto da mio padre che credeva nel mio talento, avevo cominciato a fare il cantante. Ero diventato il “fenomenal boy” italiano e avevo accumulato 130 apparizioni in trasmissioni televisive e tante serate con la mia orchestrina di liceali. In Italia nessuno sapeva chi fossi: sono ripartito con l’avanspettacolo, una cosa del tutto nuova per me».

Poi però fu messo sotto contratto dalla Cgd e la sua carriera decollò fino a vincere due Festival di Sanremo assieme a Modugno con “Nel blu dipinto di blu” e “Piove”. Con Mimmo non è stato un rapporto facile...
«È stato un rapporto complicato, ma sempre molto bello. Lui mi ha dato anche due ceffoni, uno per invogliarmi a cantare, perché ero paralizzato dalla paura, l’altro quando non ho voluto fare il terzo festival con lui. Gli dissi di no e lui si arrabbiò, ma io ero deciso: volevo camminare da solo, vedere chi fossi realmente».

Col successo arrivarono anche le belle donne. Lei diede scandalo legandosi a Lauretta Masiero , con cui ebbe il suo primo figlio Gianluca, senza essere sposato. E poi Catherine Spaak...
«Non era facile nell’Italia di allora. “Vivere nel peccato” come accadde con Lauretta poteva costare una carriera. È stata dura affrontare tutti i giorni questo argomento con i rotocalchi. Ma per me l’importante era la vita, bisognava ragionare anche col cuore. Non mi sentii di sposarla: aveva dieci anni più di me. Pesavano: io ne avevo 30 e lei 40».

Ha detto di no a Visconti che la voleva nelle “Streghe”. Come si fa a dire di no a Visconti?
«Si fa, si fa. D’altra parte non sapevo quello che dovevo fare. Prima di andare sul set a Vienna lo domandai più volte e siccome la risposta era vaga dissi: “Non ci vengo”».

Che rapporto è stato quello col cinema?
«Una storia molto piacevole. Ho fatto 35 film ma ho recitato tanto anche per la tv. “Cuore” (si può vedere su RaiPlay, ndr) mi ha dato molto a livello personale, Comencini era un grande regista. Ho lavorato anche con altri maestri come Mario Mattioli, Steno, Giuliano Montaldo, Pasquale Festa Campanile, Sergio Corbucci, Dino Risi, Luigi Magni, Pupi Avati...».

A un certo punto, da buon brianzolo, diventa imprenditore e si mette a fabbricare materassi.
«Pensavo a un piano B. Percepivo l’instabilità di questo mestiere. Purtroppo non sapevo fare altro: entrai in questa società, ma fu un fallimento totale».

È stato anche uno dei primi volti noti a credere nella pubblicità. I suoi spot del formaggio hanno fatto epoca.
«Non mi sono fatto mancare niente! Mi ero affezionato alla famiglia Galbani e abbiamo fatto nove anni insieme».

Anche Dorelli vuol dire fiducia?
«(Ride) Un po’ di fiducia la do, ma non sono la Galbani».

Ha dedicato l’autobiografia a suo padre, figura fondamentale nella sua carriera. Ha provato a replicare il modello con i suoi figli?
«Io li ho seguiti fino a un certo punto, ma poi Gianluca ha fatto il suo percorso e l’ha fatto anche bene. Gabriele e Guendalina hanno scelto altre strade».

Lei che padre è stato?
«Non lo so, bisognerebbe chiedere a loro. Di certo non sono mancato».

Ha sempre avuto donne bellissime. Cos’ha di speciale Johnny Dorelli?
«Anche questo bisogna chiederlo a loro. Se chiede a me è dura. Dovrei capirlo anch’io, ma non lo so. So che Gloria (l’attrice Gloria Guida, sua seconda moglie, ndr) è con me da 41 anni...».

A 70 anni ha detto stop alla carriera. Perché?
«Avevo fatto tanto in tanti campi. L’età arriva e a un certo punto ti senti lontano dall’obiettivo giusto: ho fatto 35 film, vent’anni di teatro, televisione... Basta! Non mi manca niente di quello che volevo fare. L’ho fatto: bene o male non so, giudicate voi».

Il ricordo più piacevole?
«“Aggiungi un posto a tavola”: si cantava, si recitava, un’esperienza fantastica».

Che recensione le piacerebbe leggere per il suo libro?
«La verità. Semplicemente il pensiero di chi lo legge».

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