Il conduttore di "Tiki taka" pubblica una divertente autobiografia sulla sua originale carriera artistica (e non solo)
«Questo libro per me è come una cassaforte: dentro ci sono tutti i miei valori». È serissimo Piero Chiambretti quando parla di “Chiambretti. Autobiografia autorizzata dalla figlia Margherita”, in libreria dal 28 settembre. Una biografia divertente e a tratti malinconica, ma anche un viaggio nella televisione e nei mutamenti che l’hanno percorsa in questi ultimi 40 anni, attraverso le vicende di uno dei suoi protagonisti più intelligenti e innovativi.
Perché un libro?
«È un atto d’amore nei confronti di mia figlia e della televisione. Ho una bambina di 10 anni che non sa nulla di suo padre. Sono arrivato al giro di boa di una lunga e meravigliosa carriera in cui credo di avere fatto cose molto importanti, anche per quanto riguarda la rivoluzione del linguaggio: 28 trasmissioni con uno stile sempre uguale, ma molto diverse tra loro, che sono andate a scovare i dettagli di mondi lontani, dalla politica alla musica e al costume… Volevo che Margherita lo sapesse».
Lamenta che in tv di lei mostrano sempre le stesse due o tre cose. Che cosa vorrebbe rivedere?
«È difficile dirlo, perché ogni cosa ha il suo valore, soprattutto se la si contestualizza. Sono affezionato a tutto quello che ho fatto, in particolar modo a quello che è andato meno bene. Mi piacerebbe rivedere oggi la cabina telefonica (era in “Pronto Chiambretti”, ndr) o “Servizi segreti”, perché dimostrano come si poteva fare una televisione creativa con pochi soldi e molte idee».
E dire che ha cominciato animando le crociere…
«Sono state una grande palestra. Per 15 giorni avevi davanti sempre lo stesso pubblico. Non potevi ripetere le battute e loro non potevano scappare. Io con loro ero cattivissimo, una specie di Kranz, il personaggio del grande Paolo Villaggio a cui mi ispiravo. Facevo giochi improbabili in cui tutti erano vittime sacrificali: non vinceva mai nessuno».
Com’è lavorare con Chiambretti?
«Ho la nomea di essere duro sul lavoro. In verità sono molto serio. Credo che non si possa raggiungere alcun risultato senza sforzo e applicazione. La mia durezza nasce da una serietà professionale che evidentemente non è più riconosciuta dall’ambiente e, se uno ce l’ha, diventa la mosca bianca. Credo anche di essere uno che aiuta molto i giovani. E non mi riferisco solo ai tanti personaggi che ho lanciato, ma a registi, scenografi, montatori, registi, tecnici, direttori delle luci che attraverso di me hanno imparato qualcosa. Sa, anche “Tiki Taka” si potrebbe realizzare facilmente: basta comprare i tre giornali sportivi la mattina del lunedì e ribadirli la sera. Invece l’unica cosa che non leggo sono proprio i tre giornali sportivi. Già dalla settimana prima cerco di mettere nel programma cose che non invecchieranno. Ho la visione del programma come di un magazine. Questo non nasce solo perché, come dice qualcuno, sono bravo, ma dal fatto che io mi applico. E questo non mi viene perdonato perché in Italia il successo e forse neanche il talento si perdonano. Forse non sono perdonabile, visto che ho entrambi…».
Spesso parla come se fosse al centro del mirino. Perché?
«La percezione nasce da due motivi: uno personale, ovvero che l’autostima non è mai ai massimi livelli, per cui credo che le cose possano sempre essere fatte meglio. Ma anche dal vedere come il mondo della tv sia costruito da lobby, agenti, amicizie importanti, salotti romani che non mi corrispondono. Le carriere di molti personaggi televisivi sono state costruite sulle amicizie, non sulla meritocrazia, una parola dimenticata e che fa ridere. Anche sperimentare fa ridere».
Scrive che “Prove tecniche di trasmissione” è stato padre e madre di “Quelli che il calcio”. C’è qualche suo programma che è “figlio”?
«Fin dall’inizio mi sono detto: “Cerchiamo di portare in tv quello che non c’è”. Il gioco era sempre cercare di non sembrare qualcun altro. In fondo, il neologismo “chiambrettismo” nasce da questo stile che è stato riconosciuto come unico. Non riconosco nei miei programmi altri programmi, ma riconosco in me uno spirito che spesso prende spunto, più che dalla tv, dal cinema, dai video musicali e dalla pubblicità».
Ha rischiato di morire di Covid e, sempre per Covid, ha perso sua mamma Felicita. Che cosa le ha insegnato questo dramma?
«Che abitiamo in micromondi che ci fanno vivere… micro. La Terra è stata paragonata a un granellino di sabbia nell’Universo e dentro ci stiamo noi con tutti i nostri problemi, che vanno dal trovare parcheggio ad avere un punto di share in più. Quando ti trovi a un passo dalla porta non del “Grande Fratello”, ma del Grande Ignoto, ti dici: “Aspetta un attimo, proviamo ad andare più lentamente, a vivere ogni minuto più profondamente”».
Come si vede in futuro?
«Non lo so. È una domanda che mi faccio, ma come diceva Einstein io al futuro non ci penso, perché arriva troppo presto. Non vedo futuro, ma solo presente e per sfortuna, o per fortuna, tanto passato. Mi piacerebbe uscire di scena in maniera clamorosa, diventare un Banksy (l’artista inglese di cui non si conosce l’identità e che dipinge soprattutto provocatori murales, ndr) della tv».
A che cosa avrebbe rinunciato per essere più alto?
«Ho sempre avuto in po’ il problema dell’altezza. Sono stato deriso, bullizzato, però se non fossi stato così non sarei diventato quello che sono. Quindi, se dovessi rinascere, va bene anche vedere il mondo dal basso verso l’alto».