Robbie Williams, l’intervista: «Sarò ancora il più grande»

Il 13 febbraio 2014 Robbie Williams compirà 40 anni: «Già, mi rimangono solo 18 mesi da popstar» ci dice quando lo incontriamo a Londra per parlare del suo nuovo album «Take the crown» («Prendi la corona»), in uscita il 6 novembre. «Dopo i 40 nessuno è una popstar, in realtà neanche dopo i 37»...

6 Ottobre 2012 alle 08:39

Il 13 febbraio 2014 Robbie Williams compirà 40 anni: «Già, mi rimangono solo 18 mesi da popstar» ci dice quando lo incontriamo a Londra per parlare del suo nuovo album «Take the crown» («Prendi la corona»), in uscita il 6 novembre. «Dopo i 40 nessuno è una popstar, in realtà neanche dopo i 37. Io, però, con qualche effetto speciale e delle buone luci riuscirò a esserlo ancora per un po’». Potrebbe sembrare una battuta ma non lo è. L’ex Take That, la più grande star maschile che la musica britannica abbia prodotto negli ultimi vent’anni, non ha voglia di scherzare. Parla del passato con lucidità, consapevole che certi risultati (60 milioni di dischi venduti, per esempio) non li potrà più ottenere. Nelle sue parole però si legge anche la voglia di giocarsi tutto pur di arrivare ai «maledetti 40» indossando la corona di «re del pop». L’ha persa nel 2009 dopo «Reality killed the video star», il suo primo album a non arrivare in testa alla classifica del Regno Unito.

Robbie, in questo momento chi sta indossando la sua corona?
«Nessuno, è lì per terra che riposa tranquilla».

E chi, secondo lei, ha avuto qualche chance di indossarla?
«Mi vengono in mente solo tre nomi: Justin Timberlake, che però ormai pensa solo a fare film, Michael Bublé, un grande talento che stimo molto, e Bruno Mars, incredibilmente furbo. Ma nessuno di loro può riempire gli stadi come ho fatto io».

Lei come pensa di tornare sul trono?
«Di certo non posso ringiovanire. E questo, in un mondo come quello della musica pop, oggi più che mai orientato verso il pubblico degli adolescenti, rende tutto molto difficile. Ma io mi sento in forma, entusiasta del mio lavoro e sono determinato a essere di nuovo competitivo».

In che modo il nuovo album riflette queste intenzioni battagliere?
«Essendo il disco del mio ritorno volevo che fosse pieno di potenziali singoli di successo. Ci sono brani che le radio suoneranno continuamente fino a non poterne più. Non vedo l’ora di cantarli dal vivo con i fan nel prossimo tour. Saranno i concerti più belli della mia carriera».

Ricorda il momento in cui ha capito di aver perso la corona?
«Quando i miei singoli hanno smesso di andare al primo posto in classifica è terminata quella che io definisco la mia fase imperiale. Come canto in “Be a boy”, uno dei nuovi brani, ho pensato che la magia mi avesse abbandonato. In realtà volevano farmelo credere, perché la gente è contenta quando vede il successo allontanarsi da qualcuno che è stato per tanto tempo al top».

A questo proposito, rimpiange qualche scelta del passato?
«Forse a un certo punto della mia carriera ho pensato di non avere più bisogno di successi assoluti come “Angels” o “Feel”. Ho cercato di essere più interessante e più originale, ma evidentemente non era ciò che i fan volevano».

Qual è stata la scelta peggiore?
«Aver fatto uscire “Rudebox” come primo singolo dell’omonimo album. I miei fan non erano pronti per una canzone così sperimentale. Gli effetti di quella scelta sono stati catastrofici al punto che quel disco non è mai decollato».

Il suo primo album «Life thru a lens», uscito nel 1996, rischiò di fare la stessa fine. Lo salvò «Angels».
«Che uscì come quinto singolo, quando ormai la mia casa discografica aveva già deciso che non mi avrebbe rinnovato il contratto. Oggi non avrebbe avuto la stessa pazienza».

Ma come mai nessuno, compreso lei, si accorse prima del potenziale di «Angels»?
«Non saprei come rispondere a questa domanda, da allora sono stato due volte in clinica per disintossicarmi e molti ricordi di quei mesi sono cancellati».

Gli stadi pieni, la folla oceanica di Knebworth, milioni di dischi venduti. È possibile ripetere tutto questo?
«Quei record di vendite non esisteranno mai più. Ogni tanto possono verificarsi delle anomalie come l’album “21” di Adele o il primo di Lady Gaga, ma di fatto quelle cifre non saranno mai più la regola. I sette milioni di copie di una volta equivalgono ai tre di oggi. E io non sono sicuro di poterci arrivare di nuovo, sarebbe un’enorme soddisfazione per me farlo con “Take the crown”. Sotto i tre milioni, invece, sarei molto infelice. Quanto ai concerti, sono convinto di poter ripetere i risultati del passato».

Dal vivo canterà anche qualche successo dei Take That?
«Non credo. La riunione con Gary Barlow e gli altri è stata un’avventura di cui avevo bisogno per rompere la routine “album-promozione-tour”. Non avevo la voglia né la forza per affrontarne un’altra da solo. Come dicevo prima, la magia mi aveva abbandonato. Il successo che abbiamo avuto mi ha fatto rivalutare la mia carriera solista, ridandomi l’entusiasmo per farla ripartire. Sapere di aver contribuito come autore e cantante a un album come “Progress”, così amato dal pubblico e dalla critica, e aver partecipato al più grande tour nella storia della musica britannica mi ha fatto sentire bene».

Con Gary Barlow ha scritto due brani del nuovo disco, tra cui «Candy», il singolo di lancio.
«È stata la prima canzone che ho scritto per l’album. Ha tutte le carte in regola per piacere a tutti e diventare uno dei miei più grandi successi».

Però nel resto dell’album prevalgono canzoni epiche e arrangiamenti che ricordano gli U2. Non pensa che «Candy», così allegra e spensierata, sia un po’ fuorviante?
«Lo so, ma non potevo permettermi di tornare e presentare il nuovo disco con una canzone sperimentale. Questo è il momento di avere un singolo al primo posto in classifica».

Com’è stato lavorare con due autori sconosciuti e un produttore irlandese come Jacknife Lee?
«Non avevo mai lavorato con persone più giovani di me, è stato stimolante. Tim Metcalfe e Flynn Francis sono due ragazzi australiani arroganti e fuori di testa come lo ero io. Per conquistare il mondo bisogna essere così. Insieme abbiamo scritto 14 canzoni in 10 giorni. Poter incidere il disco nel garage di Jacknife Lee, a Topanga Canyon (a nord di Los Angeles, ndr) invece che in un freddo studio di una multinazionale, è stato un sollievo».

Scusi se insisto, ma è davvero convinto che dopo i 40 anni non si possa più essere una star? In fondo i Rolling Stones hanno appena festeggiato 50 anni di carriera…
«Sì, ma la gente quali canzoni vuole sentire, quelle degli ultimi 20 anni? Non credo, i fan non si ricordano nemmeno i titoli di quei pezzi. Vogliono solo riascoltare “Brown sugar” e “(I can’t get no) Satisfaction”».

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