“Da vivo”, il nuovo one man show di Angelo Duro

Dopo “Perché mi stai guardando”, l'ex iena, attore e scrittore con quasi due milioni di follower, sta proponendo nei teatri d'Italia un altro esilarante spettacolo. Comicità, ironia e riflessione sono gli ingredienti della sua stand up comedy

Angelo Duro
18 Febbraio 2020 alle 11:53

Ogni volta, sul palco, è sempre una sorpresa. Non sai mai cosa combina e cosa sta per accadere. Il punto fermo sono i novanta minuti in cui lui, Angelo Duro, ex iena, attore e scrittore, racconta al pubblico in sala episodi di vita vissuta e di attualità. Solo lui sul palco, riflettori accesi. Parole e lunghi silenzi. E ancora lunghi silenzi e parole. In un racconto spontaneo dove si ride tanto e si riflette. “Da vivo” è il titolo del suo secondo lavoro teatrale dopo “Perché mi stai guardando”. Un one man show, una stand up comedy come viene definita in cui Angelo Duro si mette alla prova con una comicità dissacrante…

Angelo, perché il titolo “Da vivo”?
«Perché mi autocelebro. Dopo il successo del mio primo spettacolo, diciamo che mi sono preso la patente e poi preferisco essere celebrato ora e non dopo».

In quest’ora e mezza di spettacolo, cosa proponi al pubblico in sala?
«Non è lo spettacolo canonico a cui siamo abituati ad assistere. Non sono un intrattenitore e non devo far ridere per forza. Io posso starmene zitto per tanto tempo o dire ciò che voglio. La gente è dalla mia parte».

Quindi sei un “trascinapubblico” senza parlare, solo con il potere del silenzio…
«(sorride). In realtà parlo anche in maniera provocatoria. Non credo nelle aspettative come gli artisti classici che, al contrario, devono tenere alto il livello di intrattenimento per non far annoiare il pubblico. Io sono l’opposto. Non mi vendo come comico, come intrattenitore».

E quindi come ti definiresti?
«Sto lavorando per diventare un essere umano. In questo momento sono solo un essere (sorride). Sono uno che va sul palco a raccontare un po’ di cose…».

Gli argomenti che tratti li decidi al momento o li prepari un po’?
«Non mi affido di certo all’istinto, sono temi pensati. Io racconto una storia partendo anche da quello che puo’ essere un mio conflitto interiore o un momento particolare e durante quei minuti cerco di scioglierlo come avviene nei romanzi. Non è una successione di battute, ma una storia raccontata. Posso starmene anche un po’ zitto perché le persone capiscono quello che sto provando e dicendo».

Andiamo nei dettagli. Cosa racconti al pubblico per far ridere tanto?
«Porto in scena, liberandole, le mie nevrosi, quelle comuni. Le cose che ci fanno ridere sono quelle che ci fanno male. “Una verità che non fa ridere non è una verità”: lo diceva un mio amico filosofo, ma non lo cito per non fargli pubblicità (sorride)».

Ironico, spiazzante. Ma sei sempre stato così?
«Da ragazzino ero accentratore, ma non sono mai andato alla ricerca di un modo di essere particolare. Sono proprio così. Ci sono stati periodi in cui cercavo di non omologarmi alla massa. E ora, nella maturità, ho raggiunto l’eccellenza…».

Tu sei siciliano. La tua è una comicità lontana da quella “regionale” che prevale ancora in Italia, soprattutto in alcuni artisti…
«La verità è che la maggior parte delle persone ride per battute istintive, per racconti clowneschi, riconducibili alla nostra infanzia. Laddove c’è più cultura o più interesse per la parola, subentra l’umorismo. L’umorismo si basa sulla conoscenza: ridi su cose che conosci, che hai studiato. Io da ragazzino mi giocavo la carta della comicità immediata e clownesca e quindi la caduta, il dialetto, i luoghi comuni. Nel tempo sono cambiato e sento più nelle mie corde l’umorismo. Dal modo in cui una persona ride, e mi riferisco al tipo di battuta che scatena la sua ilarità, si capisce che persona è e, soprattutto, qual è il suo quoziente intellettivo».

Chi ti fa ridere o sorridere?
«Non voglio fare l’intellettuale, ma mi fanno ridere gli scrittori, sono i miei miti… Scusate ma la presunzione è il mio marchio di fabbrica (sorride)».

Hai quasi due milioni di follower. L’uso esasperato dei social sta impoverendo la nostra cultura secondo te?
«Non fa altro che rivelarla in realtà. In Italia, dove non abbiamo molta voglia di lavorare, i social network hanno legittimato le persone a lavorare da casa facendo leva sul loro ego. Quindi i social sono diventati un mezzo per vendere la propria vita con la possibilità di monetizzare utilizzando tutto ciò che ci circonda, dai figli agli animali, alla vita privata. Ma resto del parere che la tua vita non è una professione. La professione è avere una competenza e riuscire a fare delle cose o una cosa meglio degli altri. Negli altri Paesi non c’è questo pensiero ossessivo dei social perché lì le professioni sono rimaste quelle di sempre. Al cinema, insomma, non ci deve andare chi ha i follower, ma chi scrive opere che abbiano un certo valore e che riesca a veicolare determinati messaggi».

Questo tuo disincanto e divertente “acidità” cadono di fronte a cosa?
«L’ironia è innata e me la porto addosso da sempre. La utilizzo sin da piccolo come un’arma per allontanare le mie paure e le mie insicurezze. Serve per non impazzire. Anche nel rapporto con le donne, con la mia fidanzata di cui parlo nei miei spettacoli, non riesco a non essere me stesso e quindi ironico».

Nel tuo futuro cosa c’é?
«La mia ambizione è trasformare i miei spettacoli in concerti. Mi sento un cantautore. Esprimo il mio pensiero, parlo la mia lingua senza la musica. Spero di arrivare nei palazzetti dello sport, da solo, con luce e voce sul palco davanti a quindicimila persone… Mi piacerebbe tornare in televisione e proporre un progetto come quello che porto nelle sale. Voglio scrivere un altro romanzo».

Qualcuno ti definisce geniale…
«Non scherziamo. L’unico genio che riconosco in Italia è Paolo Villaggio. Io non faccio altro che dire le cose. Sono quello che, quando si trova in banca ed è in fila, prende la parola e gli altri gli fanno un applauso. Non sono distante dagli altri. Ne faccio parte».

Seguici