Ci racconta il grande ritorno a teatro di Notre Dame de Paris, lo spettacolo giunto al 20esimo anniversario

Parla nove lingue: francese, inglese, italiano, spagnolo, russo, coreano, fiammingo, polacco e kazako. Dal 1998 ha attraversato 20 Paesi nel mondo con 5.400 spettacoli e 13 milioni di spettatori. La versione italiana, adattata da Pasquale Panella, dal 2002 ha visitato 47 città con 1.346 repliche. Sono solo alcuni numeri di “Notre Dame de Paris”, l’opera popolare in musica di Riccardo Cocciante. Un successo che continua. Per il tour del ventennale italiano, che parte il 3 marzo, sono stati staccati già 40 mila biglietti. E dire che Cocciante e il canadese Luc Plamondon l’avevano scritta senza aspettative. «Direi che è nata per il bisogno di esprimerci: io in musica e lui in parole» ci racconta Cocciante. «Abbiamo composto l’intera opera, dall’inizio alla fine, senza che nessuno la sentisse».
E poi che è successo?
«Amavamo quello che avevamo fatto e volevamo che qualcuno l’ascoltasse, ma nessun produttore era interessato. Ci dicevano che era un genere che non funzionava. Poi Charles Talar (uno dei principali produttori musicali indipendenti francesi, ndr) è venuto a sentirla, ma senza convinzione. Mi sono messo al pianoforte e ho suonato e cantato tutta l’opera. Lui niente, impassibile. Alla fine, andando via, ci ha detto che avrebbe riservato un teatro per quattro mesi. Da un “no” a quattro mesi! Da lì è nato tutto».
E in Italia?
«La questione era la stessa: ok, ha successo in Francia, ma in Italia funzionerà? Da noi c’erano stati Garinei e Giovannini, belle commedie musicali, ma poi s’era spento tutto. È stata una sfida professionale, ma anche personale. Eppure, se guardo al mio passato mi sembra un percorso naturale: nella mia infanzia sono stato nutrito dalla musica lirica. E non scordiamoci che il mio primo disco, “Mu”, era un “concept album” (tutti i brani raccontano un’unica storia, ndr)».
Come spiega un tale successo?
«Il successo è sempre un mistero, ma “Notre Dame”, per l’epoca, era pieno di novità. Abbiamo utilizzato un linguaggio pop rock e le coreografie di Martino Müller mescolavano per la prima volta danza moderna con acrobati e breakers (ballerini di break dance, ndr). Nella musicalità di “Notre Dame” ci sono il passato e il presente, tutto si mescola. Forse il segreto sta in questa sua atemporalità.
In che modo la rappresenta? Anche lei si è sentito un escluso come Quasimodo?
«Più che escluso direi diverso. I personaggi dell’opera hanno il problema di non essere omologati. E ogni artista valido è valido perché diverso. Il fatto di non essere come gli altri è una sofferenza che si patisce soprattutto nell’infanzia, ma se non si cerca di correggerla, questa diversità a un certo punto diventa un pregio. Il non omologarsi è una caratteristica dell’artista. Io mi sono sempre sentito un po’ così, non del tutto inserito. Non ho fatto delle canzoni per essere commerciale o per avere successo, ma perché volevo esprimere me stesso nella mia diversità, nel mio bisogno. Forse è per il mio carattere: sono introverso, sento di essere un po’ a parte, abito in un Paese (l’Irlanda, ndr) in cui non sono famoso per vivere in modo normale… Quando scrivo capisco profondamente certe problematiche perché mi ci riconosco».
A quando un nuovo album?
«Sono fortunato, perché ho due carriere. Non metto da parte il fare canzoni, lo trovo altrettanto importante, ma mi posso permettere di scegliere. A volte gli artisti fanno album per contratto. Io posso farlo quando ho voglia».
E c’è questa voglia?
«Ho scritto molte cose. Aspetto il momento giusto».
Non ha mai sentito il bisogno di scrivere le parole per la sua musica?
«Penso che si debba accettare quello che si sa fare. Io non scrivo sui testi, sono sempre stati gli autori che hanno scritto sulle mie musiche. Compresa “Notre Dame”. So di avere delle qualità, so esprimermi con la musica, la compongo, la canto, ma non sono bravo a scrivere i testi. Do delle proposte a volte, ho delle intuizioni, ma ho sempre cercato degli autori che sapessero tradurre in parole la mia anima».
E la tv? Dopo “The Voice of Italy” ha chiuso?
«Adesso non m’interessa, ma mai dire mai».
Ha visto Sanremo?
«Sì, e devo dire che Amadeus è stato molto bravo: prima Sanremo era troppo tradizionale e non rispecchiava l’evolversi della musica. Lui, invece, ha proposto la musica di oggi senza dimenticare quella di ieri. L’ho trovata una proposta bella e di qualità».
In un Festival di questo tipo ci andrebbe?
«Vale la risposta di prima: tutto è possibile, ma in questo momento non è nella mia mente. Adesso le dico di no, ma il mondo è bello perché tutto è aperto, quindi chissà, magari domani potrei dirle di sì...».