Amedeo Minghi, un nuovo inizio tra ieri e domani, l’intervista

Amedeo Minghi è felice di lavorare con i giovani e parla con entusiasmo dell'appuntamento di giovedì 30 ottobre con gli studenti dell'Università La Sapienza di Roma. Lo incontriamo in occasione dell'uscita del nuovo album «Suoni tra ieri e domani»...

28 Ottobre 2014 alle 23:46

Amedeo Minghi è felice di lavorare con i giovani e parla con entusiasmo dell’appuntamento di giovedì 30 ottobre con gli studenti dell’Università La Sapienza di Roma: «Hanno studiato le mie canzoni, le hanno scelte spontaneamente e ne hanno elaborato versioni rock, pop, jazz, rap» ci spiega quando lo incontriamo a Milano in occasione dell’uscita del nuovo album «Suoni tra ieri e domani». «Questo è il segno più alto del lavoro che ho fatto in tutti questi 48 anni».

I ragazzi della Sapienza hanno anche sceneggiato e girato il video di «Io non ti lascerò mai», l’unico inedito di un album in cui Minghi canta dal vivo (accompagnato solo dal pianoforte di Cinzia Gangarella) 10 canzoni scritte per altri interpreti, da «Solo all’ultimo piano» (Gianni Morandi) a «Camminando e cantando» (Marcella).

Minghi, secondo quale criterio ha scelto i brani dell’album?
«Li ho selezionati tenendo conto delle storia, degli aneddoti e delle motivazioni che ci sono dietro ognuno di loro. Lo spettacolo non era nato per farne un disco, ma siccome è andato bene abbiamo deciso di farlo uscire».

Com’è nata l’idea di aggiungere «Io non ti lascerò mai»?
«È una melodia che piaceva tantissimo a mia moglie. Quando la tragedia mi ha colpito (Elena Paladino Minghi è morta lo scorso 7 gennaio, ndr) ho deciso che dovevo metterla assolutamente in questo disco, assieme ai brani del passato. Perché questa canzone apre una nuova fase della mia vita e della mia carriera».

Il testo è stato scritto dopo la morte di sua moglie?
«Sì, ma il titolo, “Io non ti lascerò mai”, c’era già».

Il video è molto suggestivo…
«Lo hanno girato gli studenti della Sapienza. Dopo aver letto il testo hanno elaborato uno storyboard e poi siamo andati in Sicilia per le riprese. Nessuno meglio dei giovani può capire che cosa c’è dentro le parole di qualcuno che vuole raccontare la propria verità».

Il packaging del disco è particolarmente ricco: il cd è inserito in un libro di 64 pagine. Una scelta controcorrente nell’era digitale.
«Sì, ma per me è normale. Il mio pubblico deve poter sfogliare, pesare, sentire la bellezza della carta, delle parole scritte, della grafica… Tutto questo rappresenta una forma di rispetto per chi mi segue, il mio 31° album non poteva essere solo un file che si può spedire via mail. C’è anche quello, ma il mio pubblico deve avere la possibilità di entrare in una libreria o in uno dei pochi negozi di dischi rimasti e comprare un ricordo da portare a casa, che secondo me è la cosa più bella».

Perché solo il pianoforte?
«Era l’unico modo per fare uscire l’essenzialità di questi brani. Riarrangiarli con altri strumenti non avrebbe prodotto nulla di speciale, avrei semplicemente ricantato delle vecchie canzoni. Cinzia Gangarella, con i suoi arrangiamenti, ha ridato una nuova vita ai brani, che ora somigliano a quello che erano quando sono nate».

I 10 brani sono nati tutti al piano?
«Tutti tranne due, che ho composto alla chitarra: “Fijo mio”, scritto per i Vianella ma poi cantato da Franco Califano, e “Ma sono solo giorni” di Mia Martini».

Durante il recital, emerge in un paio di casi il suo disappunto per come alcune canzoni furono arrangiate all’epoca. La più grossa delusione fu «Camminando e cantando» di Marcella Bella. Come si manifestò concretamente il suo disappunto contro l’arrangiatore francese di cui parla durante lo spettacolo?
«In realtà non ho potuto fare nulla. Non avevo ancora la possibilità di poter dire “Questa cosa non ve la do più, me la riprendo”, cosa che ho fatto dopo e farei adesso senza pensarci un attimo».

Mentre nel caso di «Firenze piccoli particolari» non era d’accordo sull’interprete…
«Non trovavo adatta la voce di Laura Landi per questa canzone. Lo dissi anche a lei, cantante brava e molto interessante. Ma anche qui non potei fare niente, la Rca la portò a Sanremo ma non andò bene, anche se poi “Firenze piccoli particolari” vinse diversi premi. Tra le dieci del disco è quella a cui guardo con più simpatia».

In seguito, il potere di imporre la propria volontà lo ha avuto.
«Se una volta non potevo dire di no all’arrangiatore francese, poi l’ho fatto. Ho cacciato arrangiatori, ho contestato delle cose. Il mio più grande traguardo è stato arrivare al punto di poter fare sempre quello che mi piace, ma ho pagato uno scotto alto per avere questa libertà».

Per esempio?
«La stampa mi ha reputato presuntuoso e non era vero, i discografici hanno smesso di fare investimenti su questo pazzo che ogni volta cambiava situazione. Secondo loro quando hai successo dovresti riuscire a scrivere la stessa canzone per tutta la vita. Io invece, per esempio, volevo scrivere colonne sonore di fantasy e l’ho fatto».

Nel disco c’è tutto lo spettacolo o manca qualcosa?
«C’è la prima parte. Nella seconda io canto i miei brani più famosi e più amati dal mio pubblico. Lo stesso formato che porterò in giro nelle prossime settimane. Mi piace chiamarlo “un viaggio nel nostro comune passato”». (Minghi sarà in concerto il 29 novembre all’Arena del Sole di Bologna, il 21 dicembre al Colosseo di Torino e il 22 dicembre al Teatro Nuovo di Milano).

In scaletta dove sarà «Io non ti lascerò mai»?
«Io lo so già dove sarà ma non glielo posso dire, io sono un teatrante e non rivelo nulla, lo scoprirà a teatro».

Nel disco, lei ripropone «Solo all’ultimo piano», scritta per Gianni Morandi con Mogol. Quest’ultimo sta lavorando con lei a un nuovo progetto. A che punto è?
«Si è interrotto dopo il lutto che mi ha colpito. Ho preferito dare spazio a “Io non ti lascerò mai” e a questo progetto. Con Giulio riprenderemo il discorso probabilmente l’anno prossimo. Due brani erano pronti, altri due erano in lavorazione. Ma il discorso resta aperto».

Quali sono i ricordi più belli dei suoi Festival di Sanremo?
«Il primo che mi viene in mente è il successo di “Vattene amore” nel 1990 con Mietta. Dopo 24 anni è un brano ancora vivo. È conosciuto in tutto il mondo, lo cantano ovunque. Nei miei concerti mi basta accennarlo e poi lo lascio cantare al pubblico. Ma forse il Sanremo a cui penso con più affetto è quello del 1983, quando non arrivai in finale. Il dolore di quei giorni è stato sostituito dall’orgoglio di sapere che “1950” è considerata una delle 100 canzoni più belle di sempre. È la mia canzone più rappresentativa, una delle poche che piace a tutti, anche a quelli a cui io non piaccio».

«L’immenso», invece, è stato il suo primo successo.
«Era la nostra canzone, mia e di mia moglie. Il testo parla di “lei che vuole me, che sa delle mie lacrime, che può vedermi piangere”. Lei non ha mai voluto che fossi diverso da com’ero e ha voluto starmi accanto nonostante io sia sempre stato un uomo complesso».

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