Bruce Springsteen e i 35 anni di “Born In The USA”
Il 4 giugno 1984 usciva l'album che avrebbe reso il Boss una star di grandezza mondiale. 15 milioni di copie dopo siamo ancora qui a riascoltarlo, domandandoci quale sia il suo segreto...
Bruce Springsteen sul manifesto del tour di "Born in the USA"
«La maggior parte dei brani di Born In The USA siamo io e la band che suoniamo. Cinque tentativi al massimo e avevamo la canzone pronta.» (Bruce Springsteen, 1984)
Per uno strano caso del destino solo dieci giorni separano il compleanno di Born In The USA (uscito il 4 giugno del 1984 in un mondo completamente diverso da questo) e l'arrivo nei negozi di Western Stars, diciannovesimo album di Bruce Springsteen atteso invece per il prossimo 14 giugno.
Due opere che parlano ovviamente di America, ma in modo del tutto diverso. Il bestseller del 1984 aveva un approccio "giornalistico" ed era essenzialmente un disco anni '70 arrivato, per mere ragioni anagrafiche, nel bel mezzo della decade successiva. Quando le strumentazioni tecnologiche erano già cambiate, così come la politica, l'economia e la mentalità della gente comune.
Western Stars, invece, è un lavoro dal respiro "cinematografico". È orchestrato con suoni che arrivano prevalentamente del passato (a tratti suona come una colonna sonora di Burt Bacharach o un esperimento sinfonico di Brian Wilson) e parla anche dell'America di Donald Trump, senza citarlo mai.
Il primo non aveva paura di affondare il suo punto di vista nella dura realtà, nelle cause che avevano portato gli Stati Uniti da Richard Nixon (disfatta del Vietnam) a Ronald Reagan (politiche economiche aggressive, intensificazione dello scontro ideologico con l'Unione Sovietica, cultura dell'Io) mentre il secondo è decisamente più trasognato e fugge via come il purosangue raffigurato in copertina. Si rifugia in un dolce passato country per ricordarci che, tutto sommato, restiamo umani e non robot con uno smartphone in mano. Born In The USA ha lasciato il segno. Western Stars forse lo lascerà, anche se oggi i dischi vendono poco.
Noi, in occasione del suo trentacinquennale, concentriamoci sul "fratello maggiore" o, per meglio dire, sul "papà fico" della discografia springsteeniana. "I'm a cool rocking daddy in the USA" Come canta bene il suo autore nella canzone epocale che dà il titolo al disco.
Tanto per cambiare, nell'epopea del Boss, Born In The USA non fu affatto un disco semplice da realizzare. Primo perché veniva dopo Nebraska (1982), uno degli album più sofferti, intensi e "poveri" dal punto di vista strumentale. Giusto un microfono, una chitarra acustica, un'armonica e un registratore a cassetta. Aggeggio che una volta era perfino caduto nell'acqua di un lago. Emettendo, una volta asciugato, strani sibili e vibrazioni. Secondo perché fu inciso (in parte) già durante la lavorazione di quella strana creatura acustica. Da gennaio a maggio del '82, Springsteen tentò invano di elettrificare Nebraska (le famigerate "Electric Nebraska sessions" finora mai venute alla luce) chiamando a raccolta l'intera E Street Band, ma finì per ritrovarsi tra le mani mezzo Born In The USA.
Sembra incredibile a dirsi, ma la titletrack, Cover me, Darlington county, Working on the highway, Downbound train e I'm on fire, esattamente come le ascoltiamo ancora oggi, provengono da quelle registrazioni in presa diretta. E giusto per non farsi mancare nulla pure I'm goin' down e Glory days vennero messe su nastro, in una prima rudimentale versione e in attesa di futura gloria, durante quei mesi febbrili.
Solo che Bruce, alla fine della fiera, era scontento e parecchio giù di corda. Non aveva trovato il sound giusto per il "suo" Nebraska. Alla fine, stufo di martoriarsi, lo pubblicò nel settembre del 1982 così com'era stato inciso su cassetta. Nudo, crudo, spettrale e maltrattato dagli agenti atmosferici. «Girai con quella cassettina in tasca per mesi. E non aveva neppure la custodia!», ricorda divertito Springsteen. «Divenni pazzo nel ripulirla per renderla pubblicabile su disco.», ricorda meno divertito Toby Scott, l'ingegnere del suono. «In fondo - prosegue Toby - non era un artista minore, ma uno che esisteva già da dieci anni. Aveva alle spalle Born To Run e con The River era arrivato in cima alla Billboard 200. La casa discografica esigeva certi standard qualitativi da uno come Bruce e lui girava col suo nuovo disco nel taschino...». Morale? Nebraska fu un capolavoro assoluto che spezza il cuore pure nel 2019. Born In The USA un mostruoso bestseller e uno dei trademark degli anni '80. Della serie: tanto tuonò che alla fine piovve.
Il 1983, dunque, fu l'anno del raccolto. Un raccolto fecondissimo. Si dice che, nei tredici mesi complessivi che servirono a Springsteen per dare una logica a Born In The USA, l'uomo di Freehold compose qualcosa come 86 canzoni a mò di "dispensa" per un disco che alla fine ne avrebbe contenute soltanto 12. Parecchie non videro mai la luce, altre finirono nel mercato goloso delle B-sides (e che B-sides! Pink Cadillac, Janey don't you lose heart, Johnny bye-bye; quest'ultima un grandioso omaggio fifties a Chuck Berry) mentre altre (No surrender, Bobby Jean e la malinconica My hometown) entrarono nella cernita finale.
Particolare di non poca importannza: in quel 1983 il rocker del New Jersey si invaghì delle potenzialità di una drum machine, strumento allora quotatissimo e decisamente in auge. Ad un certo punto pensò anche di trasformare Born In The USA in un omaggio ai Suicide (duo post punk newyorchese, amato dal Boss, che faceva musica solo con l'aiuto di uno sgangherato sintetizzatore) pubblicando due dozzine di canzoni senza avvalersi della potenza di fuoco della E Street Band. La Columbia, alla notizia, sbiancò e lo pregò vivamente di ripensarci.
Springsteen, effettivamente, ci ripensò. Non se la sentiva, dentro di sé, di accantonare nuovamente gli amici di una vita visto che già c'erano tensioni in ballo con Little Steven, il chitarrista, che difatti non partecipò al successivo tour mondiale per via di una diatriba col management. Bruce arrivò quindi a consegnare il master nel febbraio 1984 in attesa della pubblicazione dell'album prevista per giugno. L'etichetta tirò un sospiro di sollievo e approvò il lungo e laborioso progetto, ma c'era ancora un "ospite" mancante: il primo singolo che avrebbe trascinato l'LP nella stratosfera dei vari Thriller, Purple Rain (in uscita proprio quell'anno), Synchronicity ecc.
«Ma come?», replicò il Boss, «Hanno la titletrack, Glory days, I'm on fire. Che usino una di quelle!». «No, tu puoi fare di meglio», replicò il suo storico manager Jon Landau. Aggiungendo subito dopo in perfetta modalità da mental coach: «Sai, questo è un disco che produrrà sette singoli e noi ci lavoreremo dietro due anni interi per renderlo un bestseller mondiale. Te la senti? Se te la senti, ok, devi aprirci un varco e scrivere quella dannata canzone che ancora manca...».
Bruce, furioso, tornò a casa e attaccò la drum machine alla spina. E compose di getto "quella canzone". Se volete scoprire quale fu cliccate sulla freccia a destra e proseguite assieme a noi il viaggio dentro ai segreti di Born In The USA...
Dancing In The Dark
Dancing In The Dark, primo singolo tratto da Born In The USA, uscì il 4 maggio 1984 (a un mese esatto dal 33 giri) e ci spiegò effettivamente che qualcosa era cambiato nella proposta del Boss. L'uso del sintetizzatore abbinato ad una solida base rock, e fin qui ci siamo, ma anche l'immagine di colui che, novello Raymond Carver con chitarra a tracolla, una volta cantò il gotico della nazione americana in capolavori come Darkness On The Edge Of Town e lo stesso Nebraska.
Nel video della canzone (diretto da Brian De Palma e con un cameo di una giovane Courtney Cox che poi sarebbe diventata famosa nella sit-com anni '90 Friends) il buon Springsteen ballava, scuoteva il bacino come il suo idolo Elvis Presley e mostrava dei signori bicipiti scolpiti in palestra. «Il fatto è - spiegò al biografo Peter Ames Carlin - che sono sempre stato un fan dei comportamenti ripetitivi e privi di significato. E cosa c'è di più ripetitivo e privo di significato di alzare su e giù un bilanciere da cinquanta chili?».
Dancing In The Dark, composta per ultima, non fu solo uno spartiacque per un disco decisamente più commerciale. No, fu anche un preciso segno del mutamento, anche fisico, del suo autore. Uno dei tanti, improvvisi e poco meditati, probabilmente meaningless, che avrebbero contrassegnato la storia del Boss.
Born In the USA
La pietra dello scandalo. Il brano più frainteso della storia del rock per quanto, nel testo, manchi di qualsiasi traccia di ambiguità. Ma c'è un motivo. Il repubblicano Ronald Reagan se ne appropriò, durante la campagna elettorale del 1984 condotta contro il democratico Walter Mondale, citando Springsteen come uno dei suoi «artisti preferiti» e descrivendo la fatidica Born In The USA come «una canzone di speranza che guarda al futuro dell'America». Beh, insomma...
Ronnie all'epoca stava correndo per il suo secondo mandato presidenziale e tirò in ballo il Boss, manco a farlo apposta, durante un comizio in New Jersey, la terra natale di Bruce che proprio in quel periodo stava attraversando una tremenda recessione economica. Springsteen non perse tempo e qualche sera dopo sfidò l'ex attore hollywoodiano dal palco della Pittsburgh City Arena durante un suo concerto: «Mi dicono che il Presidente sia un mio grande fan. Bene, allora mi piacerebbe proprio sapere quale è il suo disco preferito tra tutti quelli che ho pubblicato finora. Sono sicuro che non potrà certamente essere Nebraska. Anzi, non credo neppure che Reagan lo abbia mai ascoltato...». Un discorso di neanche trenta secondi. Dopo di che attaccò Johnny 99, canzone dello stesso Nebraska che parla di un disoccupato cronico che, al culmine della disperazione, compie una rapina per procurarsi il pane. E finirà in carcere con una condanna, appunto, di 99 anni.
Alla stessa maniera Born In The USA tratta di un reduce del Vietnam che, tornato traumatizzato da quel conflitto tremendo nel Sud Est asiatico, non riesce a reinserirsi nella società americana e finisce incarcerato, per dieci lunghi anni, in un penitenziario statale. La prima melodia nacque addirittura nel 1978 come protest song acustica intitolata, guarda caso, Vietnam.
Springsteen la ritirerà fuori nei primi mesi del 1982 e il tastierista Roy Bittan, sentendone il ritornello esasperato, scovò un riff vincente lavorando sodo al sintetizzatore. «Non era la solita linea d'accompagnamento che andava di moda in quegli anni. Volevo ricreare un suono strano, esotico, da giungla di Saigon», spiegò poi il pianista della E Street Band.
A quel punto, sollecitato dalla chitarra ruvida del Boss che andò subito dietro l'idea di Bittan, il batterista Max Weinberg cominciò a picchiare una ritmica in quattro. Squadrata, letale, senza respiro. «Sembrava il suono della guerra», commentò serafico Springsteen. Born In The USA era pronta. E con essa uno dei maggiori inni rock di ogni epoca.
Ah, Ronald Reagan il 6 novembre 1984 riconquistò la Casa Bianca per la seconda volta consecutiva. Sconfiggendo di ben 18 punti percentuali il povero Mondale.
Darlington County
Coloro che pensano che Born In The USA sia un album di rottura dal vecchio immaginario springsteeniano fatto di fughe in macchina alla ricerca di un futuro migliore (il famoso passaggio stilistico dall'utopia ribelle di Born To Run ai valori comunitari di The River passando per la disillusione cupa di Darkness On The Edge Of Town) dovrebbero dare un ascolto a questa gemma rimasta un po' oscurata dai tanti, troppi singoli che hanno condotto il settimo album di Bruce alla strepitosa cifra di quindici milioni di copie smerciate.
Darlington County, terza traccia in scaletta prima del twist di Working on the highway, racconta di due simpatici imbroglioni in fuga da New York approfittando della festa nazionale del 4 luglio. Uno finirà bene incontrando la ragazza dei suoi sogni (alla quale promette di regalare una delle due Twin Tower "in cambio di un bacio ed un sorriso". L'11 settembre era ancora un incubo lontano...), l'altro decisamente in malora e ammanettato alla portiera di una macchina della polizia. Una Ford, per la cronaca.
Risultato di una nottata folle al suono di un rock 'n' soul allegro e brioso, misto ideale di anni '50 e Motown. Una miscela trascinante made in New Jersey della quale la E Street Band - fin dai tempi lontani di The Wild, The Innocent and The E Street Shuffle - è sempre stata incommensurabile maestra.
Glory Days
Poteva manccare forse il baseball, passatempo americano per eccellenza, in un album intitolato Born In The USA e raffigurante in copertina un sedere ("Il più bel sedere del rock", metteranno a verbale le milioni di fan femminili del Boss) con in tasca un berrettino da pitcher?
Glory days è rock nazionalpopolare come pochi altri al mondo. Sembra quasi una canzone di Bryan Adams che, proprio in quel 1984, uscirà a sua volta con Summer Of '69, uno dei brani più Springsteen-friendly del suo repertorio. Gioca con un concetto base semplicissimo (al liceo eravamo tutti più vitali di oggi e forse non ce ne siamo neanche accorti), ma allo stesso tempo spazza via la nostalgia dei "bei tempi andati", degli Happy Days televisivi e degli American Graffiti cinematografici. Con una netta dichirazione d'intenti del Boss: voglio essere famoso, un simbolo a stelle e strisce, e non mi vergogno di ammetterlo.
«C'è stato un momento - spiegherà Springsteen al suo biografo Peter Ames Carlin - tra Nebraska e Born In The USA che mi sono sentito pronto per far parte di una società. Pronto ad essere la voce di quel preciso momento storico così come lo sono stati a suo tempo Elvis, Woody Guthrie, Curtis Mayfield e ovviamente Bob Dylan. Non so se ne avrò le capacità, ma mi piace andare in quella direzione: è un qualcosa che mi interessa molto.».
Glory days è soprattutto questo: una via diretta per fregiarsi di una voce - è proprio il caso di scriverlo - "generazionale".
Downbound Train
Il singolo mancato da Born In The USA all'interno di un album che mandò comunque ben sette delle sue dodici canzoni tra i primi dieci posti delle classifiche americane (anche se nessuna di esse raggiunse mai la vetta).
Forse la canzone più epica di un album stratosferico e quella stranamente rimasta più in ombra. Peccato perché parte con un riff degno di Keith Richards e poi sviluppa una struttura country nella miglior tradizione di The river, il brano, non l'intero doppio album.
Per Dave Marsh, uno dei biografi più accreditati del Boss, non è quel granché: «Non mi convince. Il protagonista, che cambia tre lavori per riconquistare il cuore della sua amata, è una figura estramamente sdolcinata». Vista dal punto di vista di una donna (tale Debby Bull, redattrice di Rolling Stone) invece ci troviamo a che fare con la canzone «più triste e sincera mai scritta da Springsteen».
Vi vogliamo congedare proprio con tale gemma perché Bruce, volente o nolente, finirà sempre per far discutere. Pur non limitandosi affatto a parlare di "macchine e ragazze" come sosteneva qualcuno in quei frenetici anni '80. Spero che almeno questo, nel frattempo, lo si sia finalmente capito.
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