Bruno Mars: «Sono il numero uno (ma quanta fatica!)»

Bruno Mars, primo negli Stati Uniti e in Europa con l’album di debutto, racconta a Sorrisi la sua storia: «Per anni nessuno ha voluto lavorare con me. Ero pronto a mollare tutto. Poi, per fortuna...»

4 Febbraio 2011 alle 06:55

È stato l’artista jolly del 2010, onnipresente nelle playlist radiofoniche come autore, produttore e  vocalist di alcune tra le più grandi hit dell’anno: «Nothin’ On You» di B.o.B, «Billionaire» di Travis McCoy, «FU» di Cee-Lo Green e «Wavin’ Flag» di K’Naan. Poi, finalmente, Bruno Mars (all’anagrafe Peter Hernandez) ha pubblicato il suo primo singolo solista, «Just The Way You Are» (niente a che vedere con il classico di Billy Joel), e ha conquistato le classifiche americane ed europee.

Le armi vincenti di questo 25enne hawaiano, nominato a sette Grammy Award (l’Oscar della musica Usa), sono la voce, bella e versatile, e la capacità di comporre melodie che entrano subito in testa. Il suo primo album, «Doo-Wops & Hooligans», è un mix (impossibile da etichettare) di pop, soul, reggae e dance. «Sono cresciuto circondato dalla musica» racconta a Sorrisi. «Già a quattro anni imitavo Elvis e Michael Jackson. Mio padre è un cantante, è stato lui a trasmettermi la passione per i gruppi doo-wop. Ma in me c’è anche una parte più rock, il mio lato hooligan».

È la sua prima volta in Italia?
«Sì, ma al vostro Paese sono legato fin da quando mio padre iniziò a chiamarmi Bruno, come Bruno Sammartino (wrestler abruzzese molto popolare negli Usa, ndr). All’epoca tutta la mia famiglia seguiva le sue imprese e io, che avevo due anni ed ero cicciottello, un po’ gli somigliavo».

Fino a pochi mesi fa era uno sconosciuto, oggi è candidato a sette Grammy. A che cosa è dovuto questo successo improvviso?
«In realtà ci provavo da sette anni. Nel 2003 ho lasciato le Hawaii e mi sono trasferito a Los Angeles. Purtroppo tra me e la mia prima casa discografica, la Motown, non ha funzionato. Non sapevano che fare di me e della mia musica, non riuscivano a etichettarmi. Ormai avevo deciso di tornare a casa, a Honolulu, quando il manager dei Menudo (boyband portoricana di cui ha fatto parte anche Ricky Martin, ndr) mi offrì 20.000 dollari per i diritti di una mia canzone. Da quel momento è cambiato tutto. Ho lavorato per un paio d’anni solo come autore e produttore senza però rinunciare al sogno di cantare. La svolta è arrivata grazie al  singolo con B.o.B».

È candidato ai Grammy come cantante, autore e produttore. Se il 13 febbraio potesse scegliere un premio, quale porterebbe a casa?
«Mi prenderei il Grammy per il produttore dell’anno. Se lo immagina? Fino a due anni fa nessuno voleva lavorare con me».

E ora con chi vorrebbe lavorare?
«Sogno una collaborazione con Prince, il mio idolo. A essere sincero, mi accontenterei di osservarlo in silenzio  mentre lavora in studio».

Nel frattempo, la serie «Glee» sta saccheggiando il suo repertorio.
«Già, non sapevo che i produttori del telefilm fossero miei fan. Hanno già usato “Billionare”, “Just The Way You Are”, “Marry You” e “FU”, facendola cantare a Gwyneth Paltrow».

Nel testo di «FU», un ragazzo manda a quel paese, senza mezzi termini, la sua fidanzata, colpevole di averlo lasciato per uno più ricco. È un testo autobiografico?
«No, mi identifico invece in “Grenade”, la mia canzone più bella, che parla di quanto si soffre quando si scopre che la persona di cui si è innamorati non prova lo stesso sentimento. E comunque, adesso che ho guadagnato qualche dollaro, potrei essere io quello che soffia le ragazze agli altri».

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