I Pooh e i 30 anni di “Uomini soli”: storia di una canzone che ha stregato il Festival

Nella notte tra il 3 e il 4 marzo del 1990 il famoso "dio delle città e dell'immensità" entrava prepotentemente nella storia della musica italiana trionfando a Sanremo. Ecco come andarono le cose...

La copertina di Sorrisi dedicata ai vincitori del Festival di Sanremo del 1990
2 Marzo 2020 alle 15:11

La telefonata arrivò in un periodo imprecisato tra l'ottobre e il novembre del 1989. Ad un capo della linea c'era Adriano Aragozzini, pezzo grosso dello showbusiness tricolore. Uno che conosceva tutti, aveva lavorato con chiunque e in passato aveva pure fatto il cronista per TV Sorrisi e Canzoni. In quel 1989 Aragozzini era anche il direttore artistico del Festival di Sanremo e la sue prime parole furono tutto fuorché indecise: «Ora non avete più scuse: vi voglio in gara il prossimo febbraio!». Dall'altra parte della cornetta c'era Stefano D'Orazio, il batterista dei Pooh e quello più attento agli aspetti prettamente manageriali del gruppo. «Ok Adriano, ci rifletteremo». Ma, in cuor suo, Stefano sapeva già che lui e il resto della band avrebbero detto di sì. In fondo una partecipazione al Festival ci poteva anche stare in ventiquattro anni d'onorata carriera.

Piccolo antefatto: erano mesi ormai che i Pooh (reduci in quegli anni da un concreto impegno civile nei confronti del WWF simboleggiato da album in prima linea come "Il Colore dei Pensieri" e "Oasi") venivano dati "per certi" alla kermesse sanremese. Non c'erano mai stati e, in fin dei conti, un nuovo decennio era alle porte per loro che erano nati nell'ormai lontano 1966 e ne avevano viste praticamente di tutti i colori. Ora o mai più. Qualche quotidiano nazionale arrivò addirittura a proclamarli "sicuri vincitori" senza neanche sapere se avrebbero accettato l'invito di Aragozzini e con che brano si sarebbero mai cimentati. Il tutto nacque basandosi esclusivamente su spericolate congetture e improbabili voci di corridoio. Aria fritta per riempire il paginone degli spettacoli. Inchiostro sprecato. Forse.

E intanto i Pooh, zitti zitti, componevano e nicchiavano. Finché non arrivò quella benedetta canzone e, quasi in contemporanea, una loro ospitata a una tavola rotonda, condotta da Pippo Baudo, al Teatro Verdi di Montecatini Terme. Ordine del giorno: spiegare al vasto pubblico perché i big della musica italiana, già in quel periodo, snobbavano Sanremo. Perché preferivano le luci dei palasport sold out alle rose lanciate dalla prima fila dell'Ariston. «E noi, ovviamente, dicemmo la nostra - ricorda Red Canzian, il bassista - puntando il dito sul fatto che un Festival in playback (un vero e proprio status quo di quegli anni '80, ndr.) non aveva davvero più senso. Doveva tornare la musica dal vivo. Dovevano tornare i violinisti alle spalle dei cantanti. E magari anche i grandi duetti degli anni '60: quelli dove il brano in gara veniva prima interpretato in italiano e poi, in lingua inglese, da qualche big straniero». In pratica la solita, eterna diatriba tra "Sanremo, luogo deputato esclusivamente alla musica" versus "Prodotto televisivo con tutti gli anessi e i connessi".

Guarda caso Aragozzini la pensava allo stesso modo. Torniamo a quella famosa telefonata autunnale: «D'accordo su tutto, ragazzi. Reintrodurrò la grande orchestra. Ripristinerò la formula dei duetti internazionali. Addirittura sposterò il Festival dalla sede storica dell'Ariston ad una maxi-struttura di oltre 5000 posti (il famoso Palafiori, situato in località Bussana, al confine esatto tra Sanremo e Arma di Taggia, ndr.). Ora mancate solo voi e, a questo punto della storia, non potete proprio dirmi di no!». Clic. Stefano D'Orazio riappese il telefono e uno strano ghigno cominciò a dipingergli il viso. Già sorridente di suo.

Le trattative, comunque, non furono affatto semplici. Lo stesso Aragozzini, da grande manager dello spettacolo qual era (aveva cominciato a lavorare con Gino Paoli agli albori degli anni '60), sapeva di certo il fatto suo, mentre il quadriumvirato formato da Dodi, Red, Roby e Stefano mirava solo a difendere la "creatura" sulla quale avevano finalmente posto le orecchie. E che, nel frattempo, era nata in un impeto di creatività made in Facchinetti/Negrini. Una canzone strana: senza batteria, arrangiata con un violoncello elettronico, con le strofe cantate dal gruppo e quegli acuti drammatici nel ritornello ad opera di Roby. La intitolarono "Uomini soli" e aveva una melodia avvolgente che, sì, magari un giorno avrebbero davvero portato in Riviera. Racconta D'Orazio: «Le nostre richieste al direttore artistico furono pressocché normali. Il cachet di partecipazione doveva essere allargato a quattro persone e, in primis, non volevamo superospiti in grado di mangiarsi l'intero cast». Parola di batterista.


C'era un precedente, in effetti. Alla vigilia di Sanremo '89 i Pooh furono invitati ad esibirsi da "esterni alla gara" assieme a Pino Daniele e Lucio Dalla e molti concorrenti d'allora ebbero da ridire. Troppe polemiche nell'aria. Il gruppo declinò elegantemente l'invito e, neanche dodici mesi più tardi, ribadì il concetto. Stavolta a suo vantaggio. Niente guest star, please. D'altronde ve l'immaginate la scena? Loro che eseguono un pezzo ultra-lirico come "Uomini soli" (con cui all'epoca nessuno aveva ancora dimistichezza) e magari cinque minuti dopo ecco Venditti sullo stesso palco che, privo delle tensioni della gara, canta con grinta il suo ultimo singolo di successo. Non era proprio il caso.

Il tempo stringeva. Il 1989 era già diventato il 1990. Ricorda Dodi Battaglia, il guitar hero: «Alla fine ci iscrivemmo un minuto prima della mezzanotte dell'ultimissimo giorno utile, ma i primi a sapere della partecipazione dei Pooh a Sanremo furono i nostri fan, a cui spedimmo una lettera datata primo gennaio 1990». Il resto d'Italia lo seppe solo all'Epifania, durante la finale di "Fantastico" sui Raiuno. Effettivamente era ancora un mondo senza internet e connessioni mobili.

«E già che c'eravamo - prosegue Dodi - sempre in quei primi giorni dell'anno pubblicammo un brano inedito: "Donne italiane". Volevamo bruciarla in vista dello stesso Sanremo». Perché? La leggenda racconta che qualche discografico sentendo sia quella che "Uomini soli" se ne venne fuori con la trovata del secolo: «Perché non andate a Sanremo con "Donne italiane"? È la più adatta a quel contesto». Nella stanza calò il gelo: qualcuno finse di ricevere una telefonata importante, un altro della band fischiettò, c'è chi andò a farsi un caffè in corridoio. La bistrattata "Donne italiane" verrà poi recuperata sull'album "Uomini Soli" uscito su etichetta CGD il 2 marzo 1990, in piena bagarre festivaliera. E, riascoltata ancora oggi, c'è da dire che è andata meglio così. Presentarsi con quel brano sarebbe stata l'assicurazione perfetta per finire fuori dal podio. Magari i Pooh sarebbero arrivati quarti. Forse addirittura settimi.


«Che poi - raccontano loro, in assoluta polifonia - c'è stato un momento che a questa faccenda del settimo posto ci abbiamo addirittura creduto! Il pomeriggio della finale (3 marzo 1990. Ndr) eravamo in hotel e un giornalista, uno di quelli che sanno sempre tutto e non gliene sfugge una, ci informò che eravamo scivolati prima al quarto e poi al settimo posto in classifica. Ok, quello era pur sempre un Festival di grandi nomi (Toto Cotugno, Mia Martini, Minghi-Mietta, Mango, Anna Oxa...), ma ci crollò comunque il mondo addosso. Per fortuna scoprimmo che era una bufala e il risultato della vittoria ci arrivò poco prima di cena. A comunicarcelo fu il nostro stretto collaboratore Massimo Lazzari nella maniera più semplice: alzando un pollice. E noi fraintedemmo anche quel segnale positivo. Salvo poi tenerci il segreto fino al momento della premiazione...». La tensione, evidentemente, era nell'aria al culmine di una settimana intensa quanto stressante. Però, morale della favola, i Pooh ne erano usciti vincitori. Loro e la brava Dee Dee Bridgewater che con "Angel of the night" aveva mirabilmente cantato in inglese la cover di "Uomini soli".


La ciliegina sulla torta comparve a tarda notte, tra il 3 e il 4 marzo del 1990, quando i due conduttori Johnny Dorelli e Milly Carlucci comunicarono ufficialmente alla nazione (e a quei 14 milioni di italiani che erano rimasti svegli di fronte al teleschermo) che i Pooh erano arrivati primi al quarantesimo Festival di Sanremo. Con una canzone, "Uomini soli", che Red Canzian descrive tuttora come «un'ode alla solitudine. Quella solitudine che forse nell'Ottocento era più romantica visto che la cantavano solo ed esclusivamente i poeti mentre oggi si vive e si respira in mezzo alla gente. Penso che Valerio Negrini (il paroliere storico dei Pooh scomparso nel 2013, ndr.) scattò una fotografia perfetta scrivendo quei versi».

Prosegue il suo co-autore Roby Facchinetti: «Sanremo del 1990 ci diede una sonora frustrata perché venivamo da un periodo un po' sottotono e avevamo bisogno di un bello scossone. E tale scossone, in fin dei conti, ce lo diede anche "Uomini soli" che nacque come un brano poco sanremese e, proprio per questo, ci fece venire una voglia matta di portarla al Festival». D'Orazio, sempre arguto di suo: «"Uomini soli" è l'antitesi dei Pooh da stadio: quelli coi laser, il ghiaccio secco, il tiro pop e il drummig d'impatto. Abbiamo preferito levare la batteria e concentrarci su delle immagini potenti e poetiche». La chiosa la mette infine Battaglia, manco si trattasse del momento dell'assolo: «Sanremo è un ambiente tremendo e logorante, ora come allora, ma noi sapevamo che presentandoci proprio con quel pezzo saremmo caduti in piedi. La sua ispirazione non si discute. Per me "Uomini soli" è la più bella canzone dei Pooh». E non solo per Dodi, sospettiamo.

Questo articolo è nato grazie al contributo e alla lettura di due libri fondamentali: "Pooh. Quello che non sai" a cura di Franco Dasisti (Mondadori, 1997) e "Pooh. I nostri anni senza fiato" a cura di Massimo Poggini (Rizzoli, 2009). Un sentito ringraziamento agli autori.

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