Celso Valli, a 72 anni, firma il suo primo album “Sette canzoni al piano”

Arrangiatore, produttore, direttore d’orchestra, ha collaborato con tutte le star della musica italiana

8 Gennaio 2023 alle 11:00

Faccia a faccia con Celso Valli, nel suo studio nel pieno centro a Bologna. È uno scrigno di mixer, monitor, computer, tastiere, su cui vigilano, al piano di sopra, ricordi sparsi di una vita di musica, tra i quali fan capolino anche un premio Grammy e un Telegatto di Sorrisi.

È una fortuna che a 72 anni abbia pubblicato il suo primo album, “Sette canzoni al piano”. Se no bisognerebbe parlare di lui solo come arrangiatore, produttore, direttore d'orchestra, pluri-vincitore di Sanremo e tanto altro. E mettere poi in fila gli artisti con cui ha lavorato dalla fine degli Anni 70 è impossibile. Per non perdersi ci si deve attaccare a Wikipedia o alla poderosa banca-dati Discogs.

Valli, intervistarla è impossibile: ha fatto di tutto con tutti.
«Viene da dire “Ma lui qui quanti anni ha?”».

Io piuttosto avrei detto che “lui qui”, come dice lei tradendo la sua bolognesità, non s'è mai divertito, perché non ha mai smesso di lavorare.
«Guardi che è la stessa cosa: per me la musica è divertimento, e quindi la mia vita è stata un unico grande divertimento, che naturalmente ha avuto dei momenti di fatica, di dolore, di situazioni brutte, che non ti piacciono, ma comunque accadono. Credo di avere il privilegio di fare il “lavoro” che già sognavo da bambino, quando ascoltavo la radio e rimanevo attratto dall'idea che dietro a una canzone, dietro a un cantante, ci fosse dell'altro. Poi ho capito quell'“altro” sarebbe diventato il mio lavoro. Penso che sia una fortuna avere realizzato quel sogno che vedevo lontano davanti a me».

Ora si è tirato fuori dalla musica “degli altri” per questo “Sette canzoni al piano”, un album per pianoforte e orchestra. Non è esattamente una ricetta commerciale.
«Però c'è un po' di tutto di quel che ho amato, un curioso mix che va dall'Impressionismo di Claude Debussy, Erik Satie e Maurice Ravel (faccio dei nomi grossi per far bella figura…) al jazz di Bill Evans e poi al pop, perché io sono un musicista pop. Tante volte mi hanno detto “Eh, in quel pezzo si sente quando parte il tuo piano!”: il pianoforte, però, dopo “cedeva il passo” alla voce, agli altri strumenti, e allora ho voluto fare un disco in cui il piano non solo parte, ma va avanti, senza “inchinarsi” poi alle legittime esigenze di un altro artista».

“Sette canzoni al piano” è un progetto studiato per essere apprezzato con la tecnologia Dolby Atmos. Non è che può spiegarci di che cosa si tratta con semplicità?
«Parlando da musicista e non da tecnico, posso dire che è un sistema d'ascolto che mi “portato” Marco Borsatti, il mio ingegnere del suono e l'autore dei missaggi dell'album. È tutto fatto in casa, insomma… Col Dolby Atmos l'ascolto è splittato, diviso, in “enne” fonti, quindi hai “enne” provenienze del suono, ciascuna legata a un suono specifico. Per capirci, col classico stereo hai due fonti, ma le parti rimangono comunque un po' mischiate. Qui, invece, metti in “solo” una cassa e senti solo quel violino lì. È una gran soddisfazione anche per chi scrive musica, perché non abbiamo mai avuto modo di sentire le singole parti con questa precisione, ed è un sistema che uno può avere anche a casa».

La sua carriera nasce nel modo più classico: studia pianoforte al Conservatorio di Bologna. Poi però arrivano subito il jazz, il prog e anche l'italo-disco… Di tutta questa musica cosa le è rimasto dentro?
«Tutto, perché ho amato tutto. Tenga presente che la storia è nata così: una mattina, avrò avuto 15 o 16 anni, mia mamma mi ha svegliato per andare a scuola (andavo al liceo classico) e io, con tutta la fantastica incoscienza di un ragazzino, le ho detto “Oggi non vado a scuola, mamma. Anzi non ci vado proprio più. Io voglio fare il musicista” e mi sono girato dall'altra parte. Mi sono riaddormentato e ho dormito come un papa fino a mezzogiorno. Quando mi sono alzato mio padre Tonino Antonio era già stato a iscrivermi al Conservatorio».

Papà era un musicista…
«Sì, e probabilmente questa mia voglia era nell'aria. Lui suonava la fisarmonica ed era nel giro delle orchestre importanti con la sua Orchestra Valli. Scriveva anche canzoni: una che ebbe un grande successo fu “Giamaica” (1958), cantata prima dal Giorgio Consolini, poi da tanti altri».

Ma lei, nel segreto della sua stanza, che cosa ascoltava da ragazzino?
«Io sono del 1950 e quindi ascoltavo le cose che suonava mio padre, la musica leggera dell'epoca, i tanghi… Poi ho cominciato a sentire questa cosa che a me emozionava molto, ma che non aveva molta cittadinanza in casa mia: questo “rock'n'roll”… Io vedevo che la gente ci impazziva dietro, ma sentivo anche mio padre e tanti adulti che dicevano “Insomma, cos'è questa gente che si butta per terra!”. In parte avevano ragione, perché c'erano anche gli stonati e quelli che davvero si buttavano per terra, ma non coglievano che quella era una rivoluzione. La vera novità era l'energia di quella musica, e io la sentivo».

Del resto, la rivoluzione o la fai o la capisci dopo…
«È proprio così».

Qui, però, è ora di aprire l'album dei ricordi di Celso Valli musicista. Torniamo al 1978/79, quando arriva il suo primo grande successo da produttore: la “Ricominciamo” di Adriano Pappalardo. Pappalardo era una grande promessa, un pupillo di Lucio Battisti, eppure non aveva sfondato del tutto. Lei che cosa combina?
«Sì, “Ricominciamo” spacca tutto. Tutti mi dicono che lì ho fatto molto bene il mio lavoro, però, dopo più di 40 anni, posso dire una cosa… Nella canzone c'è uno stop e poi un lancio di batteria che la fa ripartire: quel punto lì è clamoroso. Ma io l'ho copiato da “Anna” di Lucio Battisti: ascoltatele insieme, i break sono uguali. Geniale, Battisti…».

Ha mai lavorato con Battisti?
«No, lui mi manca: ero impercettibilmente troppo giovane per lavorare con lui. Tenga presente un arrangiatore inizia la sua vera carriera attorno ai 35 anni, e alla metà degli Anni 80 Battisti aveva già preso strade tutte sue».

Nello stesso periodo di “Ricominciamo” inizia un lungo rapporto con…
«Allora: proprio mentre sono in studio per Pappalardo, insistono perché parli al telefono con una ragazza. Sento questa voce che mi chiede se sono interessato a fare qualche arrangiamento: “Sì, certo. Ma, mi scusi, con chi parlo?”. “Sono Mina”. È andata così, non la indoro per nulla».

Insieme realizzate subito un classico: “Anche un uomo”. Ma uno come Celso Valli che cosa può dire alla signora "Buona-la-prima-sempre"?
«Le dice “Ciao!” e “Grazie!”. Non è che le dai dei consigli. Il giorno di “Anche un uomo” arrivò in studio alle cinque del pomeriggio e ascoltò la base che avevamo fatto al mattino: “Bello. Aspetta un secondo che la provo”. La cantò una volta ed era fatta. Poi mi disse: “Allora, dai, ci sentiamo presto”, mi diede un bacino e se ne andò. La persona più normale che tu possa immaginare. Abbiamo subito fatto il mix e dopo cena me ne sono tornato a Bologna. Oh, non ho fatto neanche una notte in albergo a Milano: se penso che su certi singoli ho lavorato anche una ventina di giorni…».

Qual è stata la canzone che l'ha fatta più penare?
«Sono tante. Ma quelle che poi sono anche andate male me le sono dimenticate».

Una faticosa, ma che è andata bene?
«Direi “Ti sento” coi Matia Bazar. Per loro fu veramente un pezzo di rottura, non se lo immaginavano così. Era praticamente appena nato il pop elettronico e il batterista Giancarlo Golzi (che poi sarebbe diventato un grandissimo amico) a un certo punto mi chiese: “Ma io quando suono?”. Con un bel coraggio, risposi: “No, tu non suoni: è tutto elettronico”. Per un paio di giorni rimasero spiazzati, della serie “Ma questo che cavolo fa!?”; poi entrarono nell'idea e diventarono i miei primi fan».

Andiamo al Festival di Sanremo? In fondo è un po' casa sua. Cito a caso alcune delle canzoni in cui ha messo il suo ingegno: “Terra promessa”, “E dimmi che non vuoi morire”, “Grande amore”… Ma qual è il “momento Sanremo” della sua vita? E chi è, secondo la sua esperienza, il cantante perfetto da Sanremo?
«Le due domande hanno una stessa risposta. Dunque, tra direzioni, arrangiamenti e produzioni, io ho vinto sette Festival. Direi che il momento più elettrizzante è venuto nel 1995. Siamo alle prove all'Ariston e sale sul palco questa ragazzina: Giorgia. Eravamo un po' sottovalutati, ma poi lei attacca “Come saprei” e vedo la gente a bocca aperta. Usciamo dal teatro sentendo che tutti borbottano e sussurrano: parlano di lei. Alla porta incontriamo Gianni Morandi che scherzando mi dice: “Ci fate paura…”. Lui portava “In amore”, quel bellissimo duetto con Barbara Cola: sono arrivati secondi. Gianni è un grandissimo proprio anche per la sua autoironia».

Lei deve sentirsi sempre in sintonia con l'artista con cui lavora, o le è capitato di svolgere il suo lavoro con freddezza professionale?
«Mi è capitato di tutto. Per esempio di credere tantissimo in un artista che quasi non era considerato e di ritrovarmi ad avere ragione anche contro la sua opinione. Oppure di non capire come mai ci fosse poco entusiasmo per un progetto e vedere che avevano così ragione gli altri che alla fine abbiamo buttato via tutto. Nella vita di un professionista della musica, che magari ha tutti i miei anni, capita davvero di tutto, ed è bello così perché vuol dire che stai davvero vivendo questa vita».

Le è mai capitato di arrivare dubbioso all'incontro con un artista e scoprire, invece, una grande sintonia?
«Per esempio è successo col più grande di tutti: Vasco Rossi. Lui era già famoso quando chiese di lavorare con me, ma in auto, andando da lui, continuavo a dirmi: “Non c'entro niente con Vasco: qui mi licenziano subito!”. Inizio a lavorare su “Guarda dove vai”, l'unico inedito del doppio live “Fronte del palco”: ho qualche idea e lo buttiamo giù velocemente. Arriva Vasco, lo ascolta e caccia un urlo “Lo canto così!”. E non mi licenzia. Ormai lavoriamo insieme da anni e conto di farlo ancora a lungo. Ho la presunzione di dire che quando una cosa convince me, convince anche lui. Con le dovute eccezioni, s'intende».

Parlando di Sanremo, ho già citato “Grande amore”: Il Volo è un'altra collaborazione importante…
«Quando abbiamo lavorato a quel progetto loro erano dei bambini, ma hanno azzeccato tutto in modo fantastico ed è stato un buon lavoro di gruppo. Quando abbiamo riascoltato “Grande amore”, ci siamo detti “Qui non ce n'è per nessuno. Non diciamo che è fatta, perché porta sfortuna, però davvero non ce n'è”».

Lei lo capisce sempre quando “non ce n'è per nessuno”?
«Sì, ma spesso con il senno di poi. E mi è capitato anche di dire “non ce nè” quando invece ce n'era e non è poi successo niente. Quando abbiamo fatto “Come saprei” con Giorgia, ci è bastato guardarci negli occhi per dire “Vai Giorgia!”, e sul palco è arrivata questa ragazzina, questo scricciolo dalla voce così potente che…».

Ha mai detto a un artista “Anche meno, dai: non esagerare”?
«Con tanti! Come dicono gli americani, per me “less is more”, il meno dà di più: canta meno, se vuoi dare di più!».

Un altro grande compagno di viaggio: Adriano Celentano.
«Lui è fantastico. È la follia. Ha una sensibilità musicale inimmaginabile. Quando ti dice “è forte”, ha ragione; se dice “no”, non ribatti. Con lui, poi, a me è andata molto, molto bene. Per la trasmissione “Rockpolitik” abbiamo pensato a due orchestre che prima si contrappongono, poi suonano insieme… Nessuno avrebbe accettato una cosa così: “Ma sei matto? Ma lo sai quanto ci costa?”. Adriano ha detto “Forte!”, e l'abbiamo fatto. Lo ringrazio ancora».

Adesso, però, dovrebbe raccontarmi anche qualche sua figuraccia…
«Mah, non saprei».

C'è un progetto che potrebbe raccontarla perfettamente?
«Questo album “Sette canzoni al piano”. Oppure citerei qualche artista: Vasco, Eros Ramazzotti, Claudio Baglioni…».

Eros lo ha conosciuto quando non era ancora nessuno: per “Terra promessa”.
«Quando ho deciso di mettere delle chitarre distorte nel pezzo, mi han detto che, insomma, era un ragazzino… “Ma che cosa c'entra?”, ho risposto: “Ci sta: lui è giovane, è forte!”. Beh, si convinsero presto».

Baglioni invece era già una stella…
«Era già lo “stra-Baglioni”. Veniva da “Strada facendo”, aveva già fatto “Questo piccolo grande amore”, “Sabato pomeriggio” e tutte queste cose. Diventiamo amici subito e mi dice: “Questa volta dobbiamo fare la differenza!”. Io rimango stupito: vuole ancora di più? “Eh sì”, conferma. Voleva fare una cosa diversa e l'abbiamo fatta: “La vita è adesso”. Che è poi l'album italiano più venduto della storia».

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