Claudio Baglioni: «Una vita in 14 canzoni e tutto l’amore che ho»

«"In questa storia che è la mia" è un’autobiografia in musica» dice a Sorrisi. E racconta di quando era famoso solo... in Polonia!

Claudio Baglioni  Credit: © Alessandro Dobici
10 Dicembre 2020 alle 08:00

Ci ha messo sette anni a “incidere” come dice lui il nuovo disco. E finalmente, “In questa storia che è la mia” è uscito. Claudio Baglioni si racconta attraverso i 14 brani inediti che compongono l’album, in una sorta di autobiografia in musica.

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Claudio, ci ha fatto attendere a lungo...
«È vero. Le distanze tra un album e un altro cominciano ad aumentare. Un po’ perché hai meno da dire, dal momento che hai già detto tanto. Un po’ perché quello che vuoi dire cerchi di dirlo nel miglior modo possibile».

Cominciamo dall’inizio. Anzi, dagli inizi. Nel brano che cuce un po’ come un filo tutti gli altri, “Uomo di varie età”, lei racconta di quando era «accompagnato da mamma a far concorsi e audizioni col risultato di un altro no...». Qual è stato il primo no della sua vita?
«Era il 1967, feci il primissimo provino alla RCA in via Tiburtina a Roma: era una struttura immensa. All’ingresso il portiere aveva la livrea, l’ascensore era enorme perché ci trasportavano i pianoforti a coda. Ricordo i tecnici con i camici bianchi come se fossero scienziati: io non avevo ancora 16 anni e il cuore me lo sentivo in gola. Cantai “Signora Lia”. Mi chiesero nome, cognome e mi dissero: “Le faremo sapere”. Quello fu il primo no. E pensare che poi la RCA è diventata la mia casa discografica e lo è tuttora. Non è stato amore a prima vista, però poi è durato più di 50 anni... (ride)».

Ci sono stati altri no?
«Eccome! Nel 1968 tornai alla carica. Feci un’altra audizione e lì proprio non ci fu ombra di dubbio: sul mio provino il direttore artistico scrisse di suo pugno con un pennarello: “Tanto questo non farà mai niente”. Una sentenza, in pratica».

Ma lei non si è scoraggiato.
«Per la verità un po’ sì. Poi avevo questi occhiali grossi, molto spessi, che mi separavano dal resto del mondo, avevo una timidezza che mi divorava, che non ho mai smesso di avere ma che poi nella vita ho imparato a gestire. Tutto contribuiva alla convinzione che non fossi poi così adatto a fare questo mestiere».

Qual è stato il no più bruciante?
«Nel 1970 partecipai alla Mostra internazionale di Venezia nella categoria Giovani, con la canzone “Notte di Natale”. La giuria era una ciurma di marinai di una nave ormeggiata a Venezia. La sera ci sarebbe stata la votazione, in palio c’era la “Gondola d’argento”. Il pomeriggio feci le prove e alla fine i giornalisti e gli addetti ai lavori si complimentarono con me: ero piaciuto. Avevo grandi aspettative».

E invece?
«Arrivai 16°. Ultimo».

Come reagì?
«Mi prese una tale malinconia che mi ripetevo: “Questa strada non è la mia”. Mi incamminai da solo, nella pioggia del Lido di Venezia, e vedevo queste acque limacciose. Mi sentivo come se stessi annaspando lì in mezzo. Fu bruciante».

Poi finalmente sarà arrivato il sì.
«Non ancora. Tre mesi dopo feci un altro concorso a Bari, al teatro Petruzzelli. Lì ebbi l’idea di portare una sedia sul palco e di cantare la canzone seduto, mentre gli altri erano tutti impalati davanti al microfono».

E funzionò?
«Macché. Arrivai ultimo pure lì. Due ultimi posti a distanza di tre mesi: mica è da tutti, eh (ride)?».

In effetti...
«E poi, quando tutto faceva pensare che non c’era “trippa per gatti”, mi arrivò l’occasione di partecipare a un festival internazionale in Polonia. Vinsi il primo premio della critica con il pezzo “E ci sei tu”, sempre di quel primo album che si chiamava, con un enorme sforzo di fantasia, “Claudio Baglioni”. Lì cambiò tutto. Passai quattro mesi in tournée in Polonia e in Cecoslovacchia e diventai pure famoso. Guadagnavo un sacco di soldi, avevo un pubblico di ragazze... Si stava realizzando il mio sogno, ma non in patria. Era una meravigliosa vita rock’n roll. C’era ancora la Cortina di ferro, quella moneta valeva solamente lì e ricordo che l’ultima sera avevo così tanti contanti che offrii la cena a 300 persone. Poi quando rientrai a Roma finì tutto, e persino una pizza da offrire tornò a essere impegnativa».

La vera svolta quando arrivò?
«Subito dopo. Ripresi in mano “Questo piccolo grande amore” che avevo cominciato ma che fino ad allora avevo lasciato da parte. Ma ero convinto che non avrebbe avuto successo, lo finii quasi come fosse un testamento, per dire a tutti: “Non mi avete capito”».

E invece.
«Dopo poco l’album diventò primo in classifica. Ricordo che camminando guardavo le finestre e mi dicevo: “Forse dietro quel vetro c’è qualcuno che mi conosce, che ha sentito la mia voce alla radio”. Mi faceva una sensazione stranissima. E quello fu il primo, incontrovertibile, sì!».

Sempre nella canzone “Uomo di varie età” parla di rimpianti e di rimorsi. Quali sono?
«A proposito di rimpianti, c’è quello di non aver mai scritto un musical, un’opera pop. Ci sono andato vicino tante volte, ma non l’ho mai fatto. Chissà che prima o poi... potrebbe anche essere l’ultima cosa che farò (sorride)».

E un rimorso?
«Qualche volta temo di avere esagerato con la manomissione dei miei brani più conosciuti, nel tentativo di renderli attuali. Una volta in un concerto del tour “Assolo” a Palermo feci “Questo piccolo grande amore” in una versione acustica molto strana, cambiando la parte armonica e forse anche un po’ la melodia. Alla fine venni affrontato a male parole da una signora che mi disse: “Lei non si deve permettere di toccare queste canzoni, perché non sono più sue, sono di tutti noi!”. Al momento risposi rasentando la rissa verbale: “L’ho scritta io e ne faccio quello che voglio!”. Ripensandoci, la signora non aveva tutti i torti. Le canzoni hanno un potere evocativo, si legano ai ricordi e sono come delle fotografie di un tempo: eccessivi ritocchi possono sembrare una violenza».

Claudio, ha venduto oltre 60 milioni di dischi: qual è il “metodo Baglioni” per scrivere canzoni?
«Un metodo vero e proprio non c’è ma ci sono delle abitudini. Preferisco la notte al giorno perché ho più la percezione delle cose. Spesso prendo appunti su fogli imbrattati di parole e di note. Poi li metto nel cassetto».

Scrive con carta e penna?
«Sì. I testi, quando li vado a cantare in studio li scrivo a mano, perché stampati al computer mi sembrano meno espressivi quando li canto. Raccolgo molti appunti e quando arriva il momento di fare il disco divento schizofrenico».

Cosa intende per schizofrenico?
«La parte musicale mi commuove, mi rapisce e mi dà gioia. Quando devo affrontare le parole, lì comincio a penare. Mi sembra che tutto sia già stato detto. C’è la notte in cui sono felice perché mi sembra di avere scritto un testo che è un capolavoro e la mattina dopo lo rileggo e mi dico: “Ma come ho fatto a scrivere una schifezza del genere?”. E così, tra alti e bassi, si arriva alla fine. Che poi la fine pure mi fa paura perché vuol dire che non ci posso più rimettere le mani».

Dove compone?
«Il movimento mi dà più ispirazione, mi sembra più vitale: in tournée mi metto dietro in macchina con la chitarra. Vale anche per il treno: ho scritto tanto viaggiando».

Si mette al piano o alla chitarra?
«Quasi sempre scrivo i brani lenti col piano e i brani dinamici con la chitarra».

Quali momenti dei due Festival di Sanremo in cui era direttore artistico ricorda con più piacere?
«Quando ho detto: “È finito!”. Avevo portato fino in fondo la nave intatta, con tutto l’equipaggio: avevamo lavorato bene. E poi c’è stata anche la benevolenza della fortuna, che ha benedetto il risultato».

Cosa le ha lasciato Sanremo?
«Mi ha insegnato l’umiltà di mettersi al servizio e sapere che il Festival esiste a prescindere da chi sei e da come lo puoi fare: è lui il più forte, perché è una istituzione. Questo ti insegna a fare un passo indietro».

Lo rifarebbe?
«Sanremo è così speciale che assomiglia a un lusso. Il lusso non lo puoi avere per sempre, altrimenti non è più un lusso, quindi credo che fare il tris sia impensabile».

Ma la televisione le manca? È vero che sta preparando uno show con Pierfrancesco Favino?
«Quando ci siamo congedati, dopo il Festival, è rimasta la voglia di fare una cosa insieme: un tour che mischi parole e musica. Ma al momento è poco più che una boutade, con il pensiero di portarlo anche in tv, perché no? È possibile, mi auguro anche che sia probabile, ma non c’è ancora nulla di ufficiale».

Il nuovo disco, la tournée il prossimo anno... ma quando vuole rilassarsi cosa fa?
«Io sono una specie di pesce. Il mio relax è concedermi di stare quanto più possibile vicino al mare. Anzi, quando si può dentro al mare, ficcato in acqua per ore e ore. Quello è il mio luogo sicuro, in cui sto con me stesso. A volte neanche con me stesso. Sto. E basta».

Ecco i segreti di un disco “fatto a mano“

La (lunga) attesa dei fan è finita: è uscito il nuovo disco di Claudio Baglioni ed è disponibile in edicola con Sorrisi (a 18,90 euro escluso il prezzo della rivista).

• È un concept album (o «album racconto» come lo definisce Baglioni stesso) che narra la parabola dell’amore e della vita, una sorta di autobiografia in musica, in 14 brani, una ouverture, quattro interludi piano e voce, un finale.
• «È un disco “fatto a mano” come si faceva 40 anni fa» spiega l’artista, «realizzato con strumenti veri suonati da due orchestre.Il ricorso all’elettronica è riservato alla cura delle atmosfere».
• Tra le collaborazioni, quelle con Celso Valli e con Danilo Rea. La regia del video di “Io non sono lì” è di Duccio Forzano.
• A giugno 2021 Baglioni tornerà live con lo spettacolo “Dodici note” che unisce pop-rock sinfonico con una grande orchestra classica, coro lirico, big band e voci moderne: un centinaio di musicisti sul palco. Sarà alle Terme di Caracalla di Roma, dal 4 al 18 giugno, il 16 e il 17 luglio al Teatro Greco di Siracusa e l’11 e il 12 settembre all’Arena di Verona.

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