Cristian Bugatti: «E adesso vi spiego chi è davvero Bugo»

Il cantautore torna al Festival, da solo e felice con “E invece sì”

Bugo
7 Gennaio 2021 alle 09:13

Lo ammetto subito per togliere ogni dubbio: questa intervista non sarà imparziale. Già, perché Bugo lo ascolto da 20 anni, ho tutti i suoi dischi e sarò stato a una quindicina di suoi concerti. Sono un fan vero, di quelli che aspettano l’album nuovo per andarselo a comprare il giorno stesso in cui esce. E per me è bello vedere come, dopo anni da artista indipendente, Cristian (Cristian Bugatti è il suo vero nome) stia conquistando sempre più pubblico. Certo, il duetto con Morgan all’ultimo Festival di Sanremo è andato male (ho ancora l’ansia per l’uscita di scena con conseguente eliminazione), ma adesso la sua “E invece sì” è tra le 26 canzoni del Festival 2021.

Vent’anni fa uscì il tuo primo disco, “La prima gratta”. A quei tempi avresti mai immaginato che saresti diventato un artista “sanremese”?
«A Sanremo ci ho sempre pensato. Anche a inizio carriera quando ero molto più eccentrico di oggi, sebbene quello fosse un modo di essere dovuto più che altro alle mie insicurezze. Ma già nel 2002 ci fu un primo tentativo di andare al Festival, con “Io mi rompo i c*” (che poi entrò nell’album “Dal lofai al cisei”, ndr)».

Forse non saremmo stati pronti.
«Prova a pensare che cosa pazzesca… La cosa sfumò perché cambiò la dirigenza della mia etichetta discografica. Pure nel 2011 ci andai vicino: avrei dovuto duettare con Irene Grandi. È stata solo questione di aspettare».

I tuoi primi dischi erano molto diretti, semplici: attaccavi un microfono e suonavi.
«Se mi chiedi se sono nostalgico del passato, ti rispondo di no. Non mi piace guardarmi indietro. Penso ai miei eroi artistici, da Vasco Rossi a John Lennon, da Lucio Battisti a Bob Dylan: hanno sempre fatto musica pensando al futuro. Inoltre ti confesso che i miei primi anni da musicista non sono stati così felici: facevo tanto casino, ma forse ero solo un bambino che cercava di farsi notare».

A proposito di “casino”, ho un ricordo folle che risale a un tuo concerto del 2003, a Milano. A fine esibizione tu e la band avevate distrutto tutti gli strumenti e mi era arrivato il pezzo di un basso addosso: ancora lo conservo.
«Lo ricordo bene, era settembre. Ero appena tornato dalle vacanze e avevo iniziato il concerto con una maschera da sub. Venivo da tre anni veramente “rock”. Quella distruzione del palco fu un modo per mettere un punto finale su quel periodo. Ero stressato, tant’è che terminato il tour rimasi tre mesi a letto: avevo avuto un crollo fisico e psicologico. Superato quel momento, nacque un Bugo nuovo».

A proposito di concerti. Avevo anche il biglietto per il tour del 2020, ma la pandemia…
«Ho vissuto quest’anno con una gamba in meno, perché per me è più importante fare musica dal vivo che non uscire con un disco. Ho fatto qualche concerto in estate, ma non sono uno da live nei teatri con i posti a sedere».

Come hai sfruttato questi mesi?
«Ne ho approfittato per lavorare sui social e scrivere un po’ di canzoni. Anche se alla fine starmene a casa con mia moglie Elisabetta e mio figlio Tito non mi è dispiaciuto affatto: “Stare a casa è qualcosa di, di spettacolare” come dico in una mia canzone (“Casalingo”, ndr)».

Ad accomunarci c’è anche il tifo per la Juventus, di cui commenti ogni partita.
«È un’idea che è venuta a un mio giovane collaboratore. Tutte le settimane gli mandavo un messaggio per parlare della Juve. E così adesso faccio una sorta di “90° minuto”».

A calcio ci giochi anche. Nel video del tuo ultimo singolo, “Quando impazzirò”, ti si vede palleggiare.
«Iniziai da bambino, a Cerano (in provincia di Novara, ndr), dove vivevo. Poi ho sempre continuato: adesso gioco spesso a calcetto e sono nella Nazionale cantanti».

Dal 2010 al 2014 hai vissuto in India. Quanto ti ha cambiato artisticamente e personalmente?
«Ero lì perché Elisabetta è una diplomatica ed era assegnata a New Delhi. Ci siamo anche sposati in India: è stata la nostra prima avventura di famiglia. Quegli anni mi sono serviti per rallentare e superare la delusione dovuta alle brutte critiche ricevute da “Nuovi rimedi per la miopia” (2011). Arrivavo da sette dischi in 11 anni e stare in India mi ha permesso di raccogliere le idee».

Torniamo al presente, anzi al futuro. A marzo, all’Ariston questa volta ci andrai da solo.
«Dopo quello che è successo lo scorso anno (la lite con Morgan, ndr) ho subito detto: nel 2021 ci riproverò. Volevo riprendermi lo spazio che mi era stato tolto. La gente ha avuto con me un affetto, un’empatia incredibili: ha capito tutto di me, anche se non mi conosceva».

E hai contattato Amadeus?
«Sì! Il sentimento di rivincita era tanto. Ad Amadeus il pezzo nuovo è piaciuto subito ed è per questo che mi ha voluto, non per altri motivi. Il Festival è musica, tutto il resto sono chiacchiere».

Cosa puoi dirci del brano che porterai, “E invece sì”?
«È una canzone meno “eccentrica” di “Sincero”: ha un taglio più classico, più da Festival nel senso migliore della definizione. È musica leggera, con un ritornello forte. Ed è il mio modo per dire: “Sono qua e ce la voglio fare”».

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