Diodato, il musicista dell’anno per Sorrisi: «Che emozione il Telegatto!»

«Sono felicissimo di ricevere questo premio, lo sognavo sin da bambino» dice il cantante che nel 2020 ha vinto tutto: Sanremo, David di Donatello, Nastro d’argento e Mtv Award

Antonio Diodato con il Telegatto  Credit: © Iwan Palombi
31 Dicembre 2020 alle 08:14

«Fermi tutti: è caduto un baffo!». Antonio Diodato si accorge che dal Telegatto che ha appena ricevuto come Musicista dell’anno si è staccato un pezzetto. E così ci mettiamo tutti a cercare un sottile e quasi invisibile baffo dorato nel brecciolino che ricopre la terrazza del Pincio a Roma, dove sono state scattate le foto di questo servizio. Passano pochi minuti e... «L’ho trovato!» esclama trionfante Antonio, che evidentemente oltre a una voce da fuoriclasse ha anche una vista a raggi X.

Antonio, ha trovato davvero l’ago nel pagliaio!
«Ci tengo troppo al Telegatto, sono felicissimo. Già quando il direttore Aldo Vitali mi ha comunicato, durante una diretta Instagram in pieno lockdown, che lo avevo vinto, mi sono emozionato. È legato alla mia infanzia, quando da bambino guardavo la cerimonia in tv. È un onore per me riceverlo e non vedo l’ora di farlo vedere a mia madre. Questo Telegatto è come una stelletta che metto sul petto, la sognavo ed è arrivata».

Quest’anno sul petto non ha più spazio: è pieno di stellette, a cominciare dalla vittoria al Festival di Sanremo, poi David di Donatello, Nastro d’argento, Mtv Europe Music Award e ora il Telegatto.
«Il 2020 è stato meraviglioso professionalmente: è il massimo che un artista possa fare in un anno. Anzi. A pensarci potrebbero pure essere i premi di una carriera intera».

È andato controcorrente: per la maggioranza delle persone il 2020 è un anno da dimenticare...
«Non c’è dubbio. Dal punto di vista umano è stato “straordinario”, nel senso di fuori dall’ordinario. La musica ancora una volta mi ha salvato, perché anche nei momenti più difficili è riuscita a farmi sentire libero».

“Che vita meravigliosa”, “Fai rumore”, “Un’altra estate”, “Fino a farci scomparire”... un successo dietro l’altro. Come nasce una sua canzone?
«Non c’è un metodo. Spesso mi capita di scrivere dopo aver vissuto una serata intensa in cui faccio il pieno di emozioni in compagnia dei miei amici: allora prendo la chitarra e viene fuori di getto».

La sua chitarra ha dei disegni incisi sopra.
«Io non ho tatuaggi, allora li faccio alla mia chitarra. Prendo qualunque strumento appuntito mi capiti tra le mani e incido sul legno. Ci sono parole di canzoni e c’è anche un albero, che è un simbolo della condizione umana con le radici che vanno in profondità e i rami che puntano al cielo».

La conosciamo come tarantino doc, ma è nato ad Aosta.
«I miei erano in viaggio, mia madre era incinta di nove mesi e non si è preoccupata. Ha pensato: “Facciamolo nascere dove capita”. E le si sono rotte le acque ad Aosta».

E poi?
«Poi siamo andati via. Quando ero bambino eravamo sempre in giro a causa del lavoro di papà, commerciante di abbigliamento all’ingrosso, ma ad Aosta non ci ero mai tornato. Ho pensato: “Deve essere la musica a riportarmici”. E ci sono tornato con il tour di questa estate. Ho suonato a 2.000 metri, tra le montagne: che meraviglioso senso di libertà!».

Le immagini del suo tour estivo sono nella docu-serie di Raiplay “Storie di un’altra estate” che la vede protagonista. Un’altra stelletta sul petto...
«Mi è piaciuto provare a raccontarmi in una maniera diversa. Questo tour seguiva la spina dorsale della mia esistenza: è partito da Aosta, dove sono nato, poi è passato per Roma, la città in cui mi sono formato artisticamente, Milano, la città in cui vivo adesso, e poi Taranto, dove sono cresciuto».

Lei che bambino era?
«Introverso, silenzioso, molto curioso: ascoltavo sempre i discorsi degli adulti. Ma mi piaceva anche giocare con gli amici».

Quali giochi preferiva?
«I mattoncini per costruire. E piacevano moltissimo anche a mio padre: spesso il lavoro lo finiva lui! Ricordo un meraviglioso castello con il ponte levatoio che mi regalarono per Natale. Poi amavo la bicicletta: mi torna ancora in mente il senso di libertà che ho provato nel momento in cui ho imparato ad andare senza rotelle. Poi è arrivata la tecnologia, mi sono appassionato ai videogiochi, ero fissato, ci passavo ore tutti i giorni. Dopo qualche anno ho capito che “mi stavano rubando il tempo”, come dice Vasco».

È cresciuto a Taranto, è legato a quella città?
«L’ho respirata fin dai racconti di mio nonno. Era pescatore e mi affascinava quando parlava delle uscite in mare per andare a lavorare, e poi c’erano quelle della domenica con la famiglia: imbarcava moglie e gli otto figli, tra cui mia mamma, li portava al largo e li buttava in mare per insegnare loro a nuotare... Siamo sempre stati una splendida famiglia, numerosa e unitissima, io sono cresciuto con i miei cugini, ricordo che nel periodo delle Feste eravamo una quarantina».

Anche lei ha imparato a nuotare con il metodo “dolce” del nonno?
«Macché. Ho cominciato con i braccioli, ho fatto anche piscina, ma non mi piace. So nuotare ma non bene, non sono un pesce di mare».

E la musica quando è arrivata nella sua vita?
«Da bambino ho ricevuto in regalo degli strumenti giocattolo. C’era anche un minuscolo piano che uso ancora nei tour! Alle elementari suonavo la “diamonica”, il piccolo piano a fiato, quello che si suona con il tubicino. Ho capito subito che mi piaceva. Poi alle medie ho scelto una scuola con indirizzo musicale. All’esame iniziale, per capire le attitudini di ciascuno, arrivai primo e mi consigliarono il violino».

Quindi suona anche il violino?
«In realtà allora quella scelta mi turbò, il violino è uno strumento difficilissimo e i primi anni sono mortificanti per chi lo studia perché all’inizio produce un suono tremendo: è una tortura per tutti, anche per chi ti sta vicino. Ai saggi, i pianisti, i chitarristi, i flautisti riuscivano a fare delle cose decenti, poi, prima dei violinisti, il professore usciva sul palco e premetteva: il violino è uno strumento molto complesso, ci vogliono anni per imparare a suonarlo. E durante le esibizioni c’erano stridii fastidiosissimi e i genitori che sorridevano con le facce tirate... Dopo due anni dissi a mia mamma che non volevo continuare con il violino. Mi sembrò sollevata!».

E poi?
«Mi regalarono una chitarra e ho imparato da autodidatta, come pure il pianoforte».

A 18 anni, il suo primo concerto.
«Già. Era nella palestra della mia scuola, in occasione dell’assegnazione dei diplomi di inglese. Ricordo che cantai “One” degli U2 come primo pezzo. Attaccai: “Is it getting better…” con il mio inglese da 4 in pagella. La professoressa di inglese era in prima fila. Il giorno dopo entrò in aula e mi disse: “Bravo Diodato, la pronuncia non era male”. Da quel giorno il 4 è diventato 7 e io ho capito che la musica mi avrebbe salvato la vita».

Poi si è trasferito a Roma?
«Sì, a 19 anni per l’università. Mi sono laureato al Dams in cinema, non in musica (sorride)».

Come sono stati i suoi inizi?
«Misi su una band cercando i musicisti su “Porta Portese” (un giornale di annunci, ndr). Suonavamo ai matrimoni, alle feste. Intanto facevo la comparsa al cinema e in una serie tv, “Compagni di scuola” (con Massimo Lopez, Riccardo Scamarcio, Cristiana Capotondi, ndr) perché si guadagnava bene. Poi lavoravo come cameriere in un pub a San Lorenzo. È stato il periodo della gavetta, del suonare in ogni situazione: ho imparato a stare su un palco. E non sono più sceso (ride)».

Arriviamo all’ultimo singolo “Fino a farci scomparire”: è appena uscito il video.
«Ho avuto la fortuna di poter interagire con un’opera di Edoardo Tresoldi, un artista di arte contemporanea noto in tutto il mondo. L’opera si chiama “Etherea” ed è stata esposta a Roma, a Villa Borghese. Mi ha fatto pensare al senso della mia canzone, alla costrizione degli amanti, che quando stanno insieme costruiscono un tempio dell’amore e quando poi la storia finisce tutto si dissolve, e allo stesso tempo diventa più leggero e più piacevole da ricordare».

È particolarmente sensibile al tema dell’amore in questo periodo...
«Lo sono sempre. E comunque no, non sono fidanzato, se è quello che vuole sapere (ride)».

Allora passiamo ai buoni propositi per il 2021.
«Spero che tutto quello che abbiamo vissuto quest’anno ci aiuti, a cominciare dal 2021, a occuparci del nostro rapporto con il pianeta, con ciò che ci circonda. Il desiderio comune è di poter tornare a una normalità, ma quella che vivevamo prima non era una normalità: questo deve essere sempre più chiaro».

E i buoni propositi per il 2021 che poi erano anche quelli del 2020, del 2019 e del 2018...?
«Certo! Ce n’è uno che si ripete ma che rimane sempre un buon proposito. L’anno prossimo mi allenerò tutti i giorni, farò tanto sport, mangerò sano, con tanta frutta e verdura, berrò solo acqua, raramente un bicchiere di vino. E solo rarissimamente aggiungerò un gin tonic».

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