Enrico Ruggeri: «Racconto senza sconti la mia generazione»

Il cantautore è tornato con “La rivoluzione”, un album autobiografico

24 Marzo 2022 alle 08:14

Tre anni: per Enrico Ruggeri è un tempo insolitamente lungo quello che separa il suo nuovo album “La rivoluzione”, appena uscito, dal precedente “Alma”. Ma ciò che è successo in questo periodo dà ancora più senso a un disco che è aspro di rock e di riflessioni, in cui Ruggeri fotografa senza sconti quanto e come i sogni della sua generazione si siano trasformati nella realtà di oggi.

L'incontro di Sorrisi con Ruggeri, però, non parte dall'album, ma da qualcosa che lo ha preceduto. C'è, infatti, un “Decalogo della buona musica” che l'artista milanese ha stilato per dare la linea alla produzione e ha poi pubblicato sui suoi social. Dieci regole per trovare il suono che catturasse l'emozione del momento, da “Prima di accendere le macchine il brano va provato e suonato come se dovesse essere eseguito dal vivo” a “Sono vietati editing del tempo e autotune a meno che questo non sia utilizzato come strumento musicale”, passando per “La band dev'essere la stessa in studio e dal vivo” e “La band non deve avere spartiti”. Insomma, qui c'è sapore, anzi suono di altri tempi…

«Il “Decalogo” è nato perché m'è capitato di leggere il “Dogma”, il documento scritto nel 1995 dal regista danese Lars von Trier per riproporre un cinema lontano dagli effetti speciali all'americana», spiega Ruggeri. «Ho pensato che anche nella musica di oggi sarebbe necessario spingere più persone possibili a tornare a far dischi con lo spirito dei grandi album del passato… Ovviamente nessuno ha risposto alla mia proposta».

Ottimo… Andiamo allora a “La rivoluzione”: è un album di riflessioni e bilanci, e dunque è il punto migliore da cui ripartire. Lei come riparte?
«Riparto facendo finalmente dei concerti (“La rivoluzione-Il tour” parte il 2 aprile da Crema e le prime date saranno a Milano, Catania, Roma, Galatina; parallelamente, sempre in aprile, Ruggeri incontrerà il pubblico anche in libreria a Torino, Milano, Genova, Bologna, Catania e Palermo, ndr). In effetti, in questi tre anni ho fatto di tutto, ma ho suonato pochissimo. Ho scritto “Un gioco da ragazzi”, un romanzo che mi è costato qualche mese di lavoro a botte di sei, sette ore di scrittura al giorno; poi ho lavorato a dischi di altri, per esempio a “Bestemmio e prego” di Massimo Bigi, che ha poi collaborato come autore in molte canzoni di “La rivoluzione”; ho presentato trasmissioni televisive… E finalmente ho anche lavorato al mio disco. A questo punto non c'è nulla che mi manchi di più dei concerti, e quindi spero di farne parecchi».

Pensavo che, al punto in cui è arrivata la sua avventura di artisti, i concerti non fossero più così necessari…
«No, no, non si può fare l'abitudine ai concerti. E poi in questi ultimi due anni sono stati veramente pochi e comunque tutti in situazioni un po' di fortuna, quindi sono ciò che mi manca di più».

L'album si apre con “Magna Charta”, un pezzo che sa raccontare un certo mondo e un certo modo di fare musica in poche parole: “Abbiamo mangiato la polvere guardando le stelle”… Pensa che quella dieta a base di “polvere” le abbia fatto bene?
«“Nascere” artisticamente nel periodo in cui sono nato io è stato una fortuna. Le faccio un esempio. Tutti mi fanno ancora i complimenti per “Il mare d'inverno”. Bene, in “Il mare d'inverno” quel famoso inciso “Mare mare…” arriva dopo 2 minuti e 10 secondi: oggi non lo accetterebbero… Ma io sono nato in un momento in cui c'era un approccio diverso alla musica. Se piacevi a un discografico, questo ti faceva un contratto per cinque album, il che voleva dire che potevi sbagliare, potevi non vendere subito, potevi non piacere subito, ma potevi anche superare gli intoppi… Pensi a quelli che durano da quarant'anni, gente come De Gregori, Vasco Rossi, Gaber, Battiato: sono tutte persone che non hanno sfondato subito, perché per fare musica che dura quarant'anni non puoi sfondare al primo singolo. Se succede, vuol dire che stai cavalcando l'onda, non stai anticipando il futuro».

Per la copertina ha scelto una sua foto di classe dei tempi del liceo (il classico Berchet di Milano, ndr). È ancora in contatto con i “ragazzi” di quella foto?
«Sì, ci sentiamo. Guardi il ragazzo col maglione bianco e verde, per esempio: lui si chiama Carmelo e non solo è ancora un grande amico, ma è anche è il mio medico di base, quindi ci sentiamo spessissimo. Oltre tutto, lui è la persona che mi ha insegnato il giro di Do, i primi accordi per la chitarra… In effetti avevo altre idee per la copertina, poi, mettendo a posto un cassetto durante il lockdown (le mille cose che abbiamo fatto durante il lockdown…), è saltata fuori questa fotografia e io ho pensato che quella “rivoluzione” che dà il titolo all'album non era una chiamata alle armi, ma era proprio la storia di questi ragazzi, e quindi la copertina doveva essere questa. Per combinazione, poi, è anche una foto fortunata, perché io sono proprio in mezzo: sembra fatto apposta e invece è ovviamente un caso».

Altra canzone dell'album: “Vittime e colpevoli”. Lei dice che ognuno di noi è vittima e colpevole, e di sé, diciamo così, dice “Sono stato più cattivo e mille volte mi hanno ucciso”… Non le chiedo di quando si è sentito vittima, ma vorrei sapere di cosa si sente colpevole.
«In effetti non saprei rispondere a nessuna delle due domande. Nella vita, però, qualsiasi persona con cui parli dice che gli stronzi sono sempre gli altri, e siccome non è possibile che uno incontri solo persone fregate dal prossimo o vittime dell'altrui cattiveria, e non s'incontri mai il malfattore, vuol dire che tutti noi, senza rendercene conto, qualche volta siamo i colpevoli, anche solo perché siamo stati maldestri. Quindi rispondo che dipende: ci sono circostanze in cui credo di essere stato vittima, ma la mia “controparte” direbbe che invece il colpevole ero io. La vita è così».

Ha appena usato un aggettivo bello e raro: “maldestro”. Nella canzone “La mia libertà”, invece, tira fuori dal vocabolario il verbo “mitridatizzare”, assuefarsi progressivamente a un veleno, a una situazione negativa. Che cosa scatta nella testa di un autore quando gli viene in mente una parola così inusuale?
«Ho usato la parola “mitridatizzati” perché ci stava: sei sillabe perfette. Ma la verità è un po' più complessa. Quelli della mia generazione scrivevano canzoni utilizzando 20mila parole; oggi molti ne usano 500, e la differenza sta qui. Probabilmente è per il fatto di aver letto qualche libro in più rispetto alla media che ti vengono in mente più parole, ma vengono naturalmente e non è che dico “adesso devo mettere una parola difficile per fare bella figura”: “mitridatizzati” era solo perfetta».

Mi ha colpito il fatto che lei l'abbia subito “quantificata”: sei sillabe…
«Eh, lì poi c'è la metrica».

E c'è anche il suo artigianato autoriale di lusso…
«Può essere. Ma era una parola efficace, non ce n'era un'altra che andasse altrettanto bene».

La sua voce ormai è un “marchio di fabbrica”. Quando ha capito che era diventata una sorta di suo strumento personale?
«È successo gradualmente. A un certo punto cominciava a capitare di chiamare il taxi e sentire che l'operatrice diceva “Ma lei è Enrico Ruggeri!”. Durante il lockdown, per dire, mi è capitato di entrare in un bar con cappellino, mascherina e occhiali scuri, dire “Un caffè” ed essere riconosciuto. Insomma, me l'hanno fatto capire gli altri».

Qual è la voce che lei riconoscerebbe tra mille?
«Sono parecchie. La grande differenza tra i cantanti è la personalità vocale: da Frank Sinatra a David Bowie, Lou Reed, Ornella Vanoni, Patty Pravo, Lucio Dalla… Li riconosci immediatamente ed è una grande fortuna».

Che voce sognava quando ha cominciato e ancora non poteva conoscere la potenzialità della sua voce?
«Eh, erano tante. In fondo si inizia a fare musica per “trovare una voce”. Non è che io volessi diventare ricco e famoso: la musica mi faceva stare bene. A un certo punto al liceo ero “quello che suonava”, avevo una mia micro micro micro popolarità. Capivo che se era bellissimo andare ad ascoltare uno che suonava, figurarsi cosa doveva essere essere quello che suonava! Questo è stato il mio motore».

Ma un concerto si gusta di più dalla platea o dal palcoscenico?
«Eh, sono due spettacoli bellissimi! Io guardo molto dal palcoscenico , avendo la fortuna di essere fisionomista, finisco per ricordarmi di tante persone e di riconoscerle. Per esempio, mi ricordo che ai miei concerti a Trieste vedevo sempre una coppia di ragazzi, poi torno una sera e noto lei da una parte con uno e lui da un'altra con una… Così quando il ragazzo è venuto in camerino dopo il concerto, gli ho parlato del fatto che si fosse lasciato con la biondina dai capelli corti: non capiva come potessi averlo saputo! Insomma, ho fatto la figura del Giucas Casella, ma in realtà è solo il fatto che io guardo il pubblico, perché guardarlo è il mio spettacolo».

Qual è la sua canzone che le piace di più sentir cantare dal pubblico?
«La vera grande emozione è sentir cantare le canzoni di un album nuovo. Magari il disco è uscito solo da una settimana, eppure lo conoscono già a memoria! Però c'è un'altra cosa da dire, ed è che è vero che alle prove non hai poi 'sta gran voglia di rifare “Quello che le donne non dicono” per l'ennesima volta, e preferisci lavorare sui pezzi nuovi… Ma c'è anche il fatto che sai che appena in concerto partirà “Quello che le donne non dicono” la canteranno tutti, e sai che questo sarà bellissimo perché in quel momento capisci che stai donando felicità, e lo fai proprio per quello. Perché l'utilità sociale del cantante è solo questa: dare gioia».

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