Filippo Graziani: il nuovo album «Sala Giochi», l’intervista

Il 16 giugno esce la seconda prova discografica dell'artista. «Le mie canzoni sono come un Tetris» ci racconta durante una lunga chiacchierata

14 Giugno 2017 alle 10:48

Si dice che il secondo disco sia il più impegnativo. Leggenda o verità, non importa se si riesce nell’impresa di migliorare l’idea musicale appartenente ai freschi esordi. Filippo Graziani, 35 anni e figlio d’arte, si è preso il suo tempo: a tre anni dal debutto sanremese e dall’album «Le cose belle», premiato con la Targa Tenco, pubblica il 16 giugno «Sala Giochi», ovvero undici tracce a prova di un talento cantautoriale dal sapore retrò. Canta l’amore, lo colora di sonorità elettroniche con un’evidente ritorno estetico negli anni ottanta.

«Stiamo parlando come se fossimo due ottantenni» scherza, perché il nostro dialogo sembra viaggiare sui binari di un passato degno di essere ricordato. Dai videogame delle sale giochi alle cassette («È incredibile se ci pensi, la musica risiede in quel nastro»), i vinili e i nostri ritmi poco adatti ai social network. «Ora sono sdraiato su una comoda poltrona nel mio giardino» esordisce Filippo quando gli chiedo da dove provengano i rumori in sottofondo. È questo il posto che ha scelto per scrivere il nuovo progetto discografico: iniziamo proprio dalle sue colline romagnole.

Quando hai bisogno di tranquillità, torni a casa?
«Vivo a Novafeltria, un paese in provincia di Rimini. Ho viaggiato tanto, ma ritorno qui perché c’è qualcosa che mi affascina. Riesco a mettere in piedi le idee: l’ispirazione arriva dai miei viaggi, ma per trasferire i sentimenti su carta devo tornare in un posto in cui mi sento totalmente me stesso».

Eppure, hai vissuto in una città come Milano.
«È stato un innamoramento fulmineo, che esiste ancora oggi. Non escludo mai un ritorno».

A proposito, cosa è successo in questi tre anni?
«Ho partecipato a Sanremo nel 2014 ed è uscito il mio primo album. Quell'esperienza è paragonabile ad un vortice che ti fagocita per un lungo periodo. Dopo, non è facile riprendere il ritmo della tua quotidianità musicale. Inoltre, non avevo dedicato tempo alla scrittura perché ero in giro a suonare».

Senti di aver riordinato tutte le idee?
«Credo di aver imparato dagli errori del primo disco, è stata una fatica particolare perchè continuavo a cambiare e perfezionare gli arrangiamenti. Ora, volevo qualcosa che avesse meno il sapore di un esercizio di stile ma che fosse significativo nella sua totalità».

Quindi, «Sala Giochi» si differenzia dal primo album.
«In realtà, è come se fosse uno spin-off di un determinato aspetto del precedente filone. Tralasciando la componente rock, si somigliano per la combinazione tra le atmosfere acustiche e il pop più elettronico. Quest’ultima componente gravita da sempre nel mio modo di scrivere».

Hai dichiarato che questo è un concept album, e tutto parte dal titolo.
«Non volontariamente, me ne sono accorto dopo aver deciso il nome. Volevo che racchiudesse perfettamente l’ideale estetico e musicale del disco, che suonasse demodé e anche adolescenziale in grado di catturare un certo tipo di nostalgia. Se ci pensi poi, è quasi un inno all’anacronismo: raramente si parla di concept album, è cambiato il livello di attenzione del pubblico».

È coerente con la tua passione per gli anni 80. Di cosa ha più nostalgia?
«Ho vissuto marginalmente quegli anni, ero adolescente. Il fatto di sceglierli come riferimento sonoro è fedele al mio pensiero riguardo i nuovi mezzi di comunicazione. in fondo, ho vissuto in un piccolo mondo felice, dove le cose risultavano più semplici e lineari da decodificare. E anche la creazione del suono rispecchia l’amore per questi anni».

In che senso?
«Abbiamo utilizzato dei veri sintetizzatori degli anni ottanta, registrati nella stanza dove vivo. Abbiamo usato poco digitale con l’intenzione di avere una forte componente realistica nei brani. Non volevo un prodotto musicale perfetto: le piccole sviste, gli errori o le ammaccature sonore danno il senso di “umano” a quello che c’è dietro la macchina».


I testi portano tutti la tua firma, immagino ci sia molto di autobiografico.
«Certo, ci sono completamente io ma non solo. Racconto le storie mettendomi nei panni di altre persone, spesso parlo dal punto di vista femminile. Una sorta di autoanalisi, mi immedesimo con le donne che hanno a che fare con me!».

E il processo creativo parte dalla scrittura?
«No, l’ispirazione arriva dalla musica. Trovo un giro di accordi che mi piace e su quello scrivo il testo, mi capita di averla in testa e crearla di getto. È il suono che mi dice cosa andrò a scrivere. In futuro mi piacerebbe scrivere colonne sonore per il cinema».

Mai dire mai. È un’altra passione oltre la musica?
«Sono affezionato ad una certa filmografia con cui sono cresciuto, da “Mad Max” a “Fuga a New York”. È incredibile riuscire a comunicare solo con le note: da Moroder a Badalamenti e Carpenter, sono tante le mie influenze musicali. Mi incuriosisce questo mondo, chissà (sorride)».

Sono passati vent’anni dalla scomparsa di tuo padre Ivan. Che eredità ha lasciato al mondo della musica?
«Si è posizionato tra i personaggi più influenti del cantautorato italiano. La sua capacità più grande era raccontare le storie in maniera originale, la sua narrativa era fuori dal tempo».

Cosa vi accomuna?
«Ho ripreso il suo modo di suonare, da sempre. E la sua puntualità».

Nel disco c’è un brano dedicato proprio alla tua famiglia, si intitola «Appartiene a te».
«È una delle mie preferite nella quale mi sono messo completamente a nudo. L’ho scritta al pianoforte, già l’avevo in mente da tanto tempo».

La «Sala Giochi» si chiude con grinta, e si percepisce un po’ di rabbia.
«Il brano «Dov’è il mio posto» è un tentativo di urlo nei confronti della frustrazione che percepisco nella società odierna. Di questi tempi, è difficile appropriarsi del proprio spazio».

Per finire: dici che la chiave per sopravvivere a questi tempi è l’amore, è vero?
«È una conclusione che può sembrare scontata e melensa, ma in realtà è proprio così. Difficilmente parlo d’amore in senso generale, lo inquadro sempre all’interno di una vicenda narrativa. Non mi interessa “la salvezza”: vorrei che le persone tornassero a toccarsi, ad avere qualcuno a cui tendere la mano e chiedere aiuto. La comunicazione e, più in generale la rete, hanno inquinato i nostri rapporti».

Che programmi hai per l’estate?
«Ancora non ho il calendario ufficiale, ma sarà un divenire di appuntamenti live».

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