"Infinite possibilità per esseri finiti" è «Un disco che si confronta con quello che la vita è e quali possibilità si può scegliere di percorrere»
Difficile capire cosa passa per la testa di un artista come Giovanni Truppi, che lo scorso venerdì 28 aprile ha pubblicato il suo nuovo album "Infinite possibilità per essere finiti". Oppure è più facile di quello che sembra, perché dietro i fiumi di parole, le produzioni articolate, i percorsi melodici, i pensieri e le riflessioni che genera, c'è soprattutto una genuina umanità.
Così nasce il quinto album in studio di Giovanni Truppi, un viaggio autobiografico alla scoperta della vita attraverso lo sguardo e i pensieri dell'artista. Un racconto senza inizio e senza fine fatto soprattutto di domande che il cantautore rivolge a se stesso, ma in cui tutti noi possiamo perderci, e forse ritrovarci. Alla produzione troviamo Marco Buccelli e Niccolò Contessa (I Cani, Coez, Tutti Fenomeni) che hanno esaltato l'essenza dell'album, multiforme, ricco di contaminazioni e cambi di stile, senza mai risultare artificioso.
Abbiamo fatto una chiacchierata con Giovanni Truppi per farci raccontare il suo disco, intanto vi basti sapere che "Infinite possibilità per esseri finiti" è un album intimo e corale, lucido ed emozionate, scritto con la testa e di pancia che ci mette davanti a un'umanità disarmante che spesso dimentichiamo.
È uscito il tuo nuovo album "Infinite possibilità per esseri finiti" e su Instagram hai scritto che, a posteriori, è un disco che funziona meglio come un racconto e quindi ti chiedo: ti va di raccontarcelo?
«In realtà funziona come un racconto vivendolo, ascoltandolo tutto insieme, perché una vera e propria trama non c’è. È piuttosto un viaggio attraverso delle riflessioni e dei sentimenti che si sono inanellati insieme, accostati l’un l’altro e che, in qualche modo, creano una narrazione. È anche un disco che mischia moltissime cose diverse, moltissimi stili, parlato e cantato, brani strumentali e brani non strumentali, solo piano e cose elettroniche, ci sono tanti rumori ambientali – ed è una cosa che mi sembra lo caratterizzi e che contribuisca a creare questa specie di trama, di racconto, di contesto molto forte».
Questo titolo che sembra quasi un enigma, cosa vuole dirci?
«Per me queste parole sono una perifrasi per descrivere la vita: quello che noi siamo, quello che noi uomini e donne siamo, è esseri finiti. Nel senso che, purtroppo, moriamo, l’energia che abbiamo a disposizione è limitata, non possiamo essere nello stesso posto contemporaneamente, non possiamo amare più di un tot persone nello stesso momento o nell’arco della nostra vita possiamo amare fino a un certo punto. Quindi sulla carta, idealmente, le possibilità che abbiamo sono illimitate, possiamo fare tantissime cose e quello che poi dobbiamo fare è scegliere tra queste cose. È un disco che si confronta con quello che la vita è, quali possibilità si può scegliere di percorrere e a un certo punto questo titolo mi è sembrato opportuno e giusto».
Per quanto riguarda le sonorità è un album molto stratificato, ricco di contaminazioni e di variazioni. Spiccano soprattutto dei momenti di spoken word: da dove nasce questa scelta o esigenza?
«È venuta in maniera molto naturale. I miei ascolti provengono dalla musica d'autore e dalla canzone classica, un po' dal rock, ma negli anni ho ascoltato anche tanta musica rap, hip-hop ed elettronica e mi piaceva moltissimo l’idea di mischiarle insieme».
Tra l’altro ho notato che le tracce più spinte sono quelle più politiche. Secondo te c’è bisogno di essere arrabbiati in questo momento storico?
«Non ci avevo pensato, ma è un parallelismo molto consequenziale, assolutamente. Mi riconosco in questa connessione che hai fatto, ma non era voluta. E direi che sì, non so la rabbia da sola quanto sia utile, ma mi sembra che ci siano tantissimi motivi per essere arrabbiati in questo momento storico».
È un album molto concreto con le sue cose, persone, città - anche le incursioni di soundscape aiutano a dare "materialità" al lavoro - ma allo stesso tempo anche spirituale, poetico, astratto. Ti ritrovi in questo dualismo? E, nel caso, come riesci a trovare l’equilibrio tra le due cose?
«Mi ritrovo in questo dualismo se penso alla mia vita, ai miei interessi, alle pulsioni che vedo dentro e anche alla mia storia artistica. Anzi, in realtà penso che la mia vita personale e artistica sono anche la storia del come provo, di volta in volta, a seconda dei periodi, a far convivere queste due cose. È bello che tu ci veda una parte più trascendente in questo disco, ma invece io, rispetto ad altri miei dischi, lo trovo molto legato alla terra come elemento, perché mi rendo conto che in questo momento della mia vita ho meno spazio per la dimensione spirituale e quindi, se osservo le canzoni che ho scritto in questi ultimi anni, in questa cosa mi ritrovo».
Da qui nasce anche la scelta di inserire le città, la vita quotidiana, per dare ancora più concretezza all’album?
«Non è una scelta ragionata, probabilmente istintivamente abbiamo sentito questa esigenza e ci siamo andati dentro. Avendo un materiale così vario dal punto di vista musicale cercavamo un elemento che potesse fare da accordo, da contesto, da trade union, e a un certo punto questi soundscape, che comunque avevamo registrato perché ci interessavano, ci sono sembrati la strada per realizzare questo tipo di connessione».
Ho ascoltato il tuo podcast "Esseri finiti" e nell’episodio a Napoli, proprio all’inizio, c’è tua mamma che ti dice che è un album complicato, che sei triste e che è "un disco dove non c’è speranza": sei d’accordo?
«No, non sono d’accordo! È un album che mostra una precarietà esistenziale e anche uno sguardo dolente sul mondo e mi rendo conto che un genitore si dispiace e si preoccupa di vedere nel proprio figlio questo stato d'animo. Poi, se devo ragionare dal punto di vista razionale e con gli elementi di cui ho a disposizione e che nell’album un pochino vengono mostrati, mi ritrovo a fare delle riflessioni molto pessimiste sul futuro del mondo, quindi anche da questo punto di vista capisco il ragionamento di mia madre. Allo stesso tempo, però, a me sembra che per motivi misteriosi e meno misteriosi dentro questo disco ci sia una luce, un calore».
La cover dell'album è stata realizzata con una performance collettiva al MAMbo (Museo di arte moderna) di Bologna: da cosa è nata questa idea?
«L’idea è nata da Aldo Giannotti, che è l’artista che ha curato tutta la parte visiva legata a questo disco, al percorso di venuta al mondo di questo disco. Con Aldo abbiamo collaborato per la prima volta proprio al MAMbo di Bologna, quando ho fatto il concerto di chiusura della sua personale un po’ di anni fa. Il suo lavoro oltre ad essere visivo è anche concettuale, nel senso che lui opera proprio una frantumazione della barriera che c’è tra l’artista e chi guarda l’opera, e molto spesso prende le persone e, metaforicamente, le porta dentro l’opera. Sapevo che lui lavorava così ed era uno dei motivi per cui gli ho chiesto di collaborare a questo disco, che si interroga proprio sullo stare insieme, e quando mi ha fatto questa proposta per la copertina mi è piaciuta. Quando poi l’ho vista mi è sembrata che fosse la scelta giusta per questo disco».
Ho solo un'ultima domanda: alla fine hai trovato la felicità?
«Penso che la felicità nel momento già in cui ne parliamo sparisca, sono sicuro che ho avuto e che ho tante occasioni per viverla ma mi sembra che uno stato di felicità perenne sia quasi in contraddizione con la vita stessa».