«Mi piace viaggiare senza comodità, in cerca di ispirazione» dice. E il suo album «Atlantico», dove c’è anche Celentano, è già primo in classifica! Un disco sorprendente: «Si intitola così perché in questi tre anni ho sorvolato l’oceano molte volte»
Tre anni. Nel mondo della musica, che corre ormai velocissimo, dove è normale pubblicare due album in un anno e le canzoni si vendono «al pezzo», Marco Mengoni si è preso tre anni di pausa dal suo ultimo disco di inediti. La gran parte del tempo l’ha passata a girare il mondo in cerca d’ispirazioni ed è da questo lungo viaggio che è nato «Atlantico», il nuovo album, che è entrato subito al primo posto nella Superclassifica.
«Mi sono preso il mio tempo» ci dice accogliendoci nel suo studio di registrazione milanese. «Sono stato ai Caraibi e in Florida per un mese e mezzo, tre mesi a New York, un bel po’ di giorni anche negli Emirati Arabi. Ho visitato Marocco, Tanzania, Portogallo. Alcuni di questi luoghi li sognavo da tempo, come Cuba. Ci volevo andare prima possibile perché sapevo che con la fine dell’embargo e l’apertura delle frontiere sarebbero cambiate molte cose. Alla fine mi sono accorto di avere sorvolato più volte l’Atlantico e il titolo del disco è nato da lì».
Una pausa piuttosto lunga.
«Questo viaggio me lo sono regalato. Venivo da un progetto lavorativo molto lungo ed ero scarico emotivamente, avevo bisogno di dedicarmi alla mia vita. Dovevo guardare dentro di me e penso che uno degli strumenti più utili per farlo sia viaggiare. Da solo. Io parto “a zaino”, mi metto in condizioni estreme. Sono quelle che ti fanno riflettere di più, quelle che ti mettono alla prova».
Ed è durante i viaggi che scrive le canzoni?
«No, però butto giù delle tracce, un flusso di coscienza di tutto quello che riesco a vedere, a caldo. Poi torno, apro le valigie e rimetto a posto tutto. Il disco è costruito sui miei appunti».
Sembra davvero pieno di influenze...
«Eravamo partiti con 23 o 25 pezzi, ma alla fine ho scelto quelli giusti per raccontare questo viaggio. Sono stati lasciati fuori dall’album anche dei brani molto belli, ma non era semplice far convivere questi mondi musicali così diversi tra loro, passare dalla tradizione sudamericana di salsa e rumba ai suoni del Portogallo o dell’Africa».
C’è perfino una partecipazione di Adriano Celentano, non proprio uno che si concede facilmente.
«Direi. L’ho voluto per “La casa azul”, il pezzo su Frida Kahlo. Mi ha sempre affascinato questa grande pittrice messicana, la forza e il coraggio che ha avuto. Ho scelto di inserire nel pezzo una voce che avesse profondità ed esperienza, quindi chi meglio di Celentano? Gli ho mandato il pezzo e fino all’ultimo non sapevamo che cosa stesse facendo. Gli ho lasciato carta bianca: “Adriano, se il pezzo ti piace fai un po’ quello che vuoi”».
E poi c’è Tom Walker, l’esordiente britannico che ha avuto più successo nel mondo nel 2018.
«Non avevo mai fatto un duetto in un mio album, ma con Tom è nata un’amicizia. È una persona alla mano e mi è piaciuto l’approccio che ha avuto in “Hola (I say)”. Non è mai facile duettare con un altro artista, soprattutto in due lingue diverse, e volevo che avesse più spazio possibile. Un duetto è una relazione e due persone devono incontrarsi a metà strada perché hanno radici diverse. Lo stesso potrei dire per la cantante brasiliana Vanessa da Mata, con cui ho cantato in “Amalia”. Con lei ci siamo incontrati a Lisbona e abbiamo registrato lì».
Questo è anche il suo primo album che produce da solo.
«Diciamo che, anche per ragioni anagrafiche, è sicuramente il mio disco più maturo e più “mio” sotto tutti i punti di vista. Prima collaboravo con Michele Canova per la produzione e come è normale su molte cose trovavamo un compromesso. Questa volta mi sono confrontato solo con i miei musicisti. Ho pure suonato le tastiere assieme al mio batterista. Da ragazzino mia madre mi aveva fatto studiare pianoforte, ma poi ho dovuto abbandonare».
Non la facevo fan di Muhammad Ali, a cui ha dedicato un brano.
«È una delle figure più importanti degli ultimi cento anni e non solo per i suoi meriti sportivi. Mi interessa come personaggio, per le sue battaglie, per quello che rappresenta. Era un pretesto per dire che dovremmo essere tutti come lui. Avere la sua forza, la sua tenacia. Poi, in realtà, nemmeno io mi sento così forte, è più un “vorrei”. Vorrei lottare come ha fatto lui, ma più semplicemente, nelle sfide quotidiane. In questo pezzo canto questa frase: “Il mio peggior nemico lo vedo allo specchio tutte le mattine”».
È davvero così? Lei sembra un tipo molto razionale.
«Infatti. Sono un Capricorno ascendente Vergine, ho la mania del controllo. Però combatto pure con questo, con la mia razionalità, perché alle volte sono troppo analitico e mi dispiace, perché spesso perdo l’istinto, quella follia lì che ti dice: “Buttati, non pensare, pensa meno!”».
Il giorno di Natale compirà 30 anni e poi nel 2019 festeggerà 10 anni di carriera. Proviamo a fare un bilancio: è andata come sognava?
«In realtà non ho mai sognato di fare questo lavoro. È nato tutto per caso. Sono andato a “X Factor” dopo una scommessa con i miei musicisti: “Te pagamo ‘na pizza se passi er primo provino” mi dissero, e io, sfidato sull’orgoglio, ci andai. Mi ero già presentato alle case discografiche con i miei inediti e avevo già buttato la spugna. I discografici mi dicevano: “Non vai bene” o addirittura “Canti troppo bene”. Avevo pensato che la musica non fosse la mia strada. La mia vera vittoria era aver finito gli studi di architettura. La mia strada doveva essere il design. Alla musica ho cominciato davvero a pensare dopo il 2009, dopo “X Factor”».
Ma qual è stato il momento decisivo in questi dieci anni?
«Quel momento è adesso, perché tutto quello che è successo fino a ieri mi ha portato a quello che sono oggi, una persona soddisfatta... all’80 per cento. La vita non mi ha fatto sconti, ma mi ha regalato un sacco di cose belle. Ho realizzato un po’ di sogni e mi sono tolto tanti sfizi».