Un'intuizione di Leonardo da Vinci è la chiave del suo nuovo album. Ed è anche la chiave della sua vita e della sua musica: un cammino flessibile oltre i limiti del basso e delle geometrie mentali
Max Gazzè riparte da Leonardo da Vinci. Dopo averne vestito i panni per presentare “Il farmacista” nella prima serata di Sanremo, oggi l’artista romano ne evoca gli studi di botanica per dare un titolo e un senso al suo nuovo album “La matematica dei rami” che esce il 9 aprile.
Facciamola semplice: Leonardo sosteneva che l’apparente caos nello sviluppo dei rami di un albero rispondesse all’esigenza di resistere alle intemperie attraverso una sinergia tra radici, tronco e, appunto, rami, tanto armoniosa quanto sfuggente al nostro sguardo.
Questo caos costruttivo Max lo ha ritrovato nell’interazione musicale, fisica ed emotiva con la Magical Mystery Band, il gruppo di amici, compagni di strada e “complici”, composto da Daniele Silvestri, Fabio Rondanini, Gabriele Lazzarotti, Duilio Galioto, Daniele Fiaschi e Daniele Tortora, con cui ha portato a Sanremo la cover di “Del mondo” dei CSI (la ritroviamo nell'album) e con cui ha realizzato “La matematica dei rami”, in un'unione di intenzioni e suoni diversi da cui è scaturita la «forza tenace e antica, e l’elastica e armonica resistenza» che Gazzè rivendica per il nuovo lavoro.
Max, dobbiamo partire da questa “matematica dei rami” leonardesca: dove l'ha incontrata?
«Sono sempre stato affascinato dalle questioni poco indagate nel corso dei nostri apprendimenti scolastici e accademici. Di Leonardo, per esempio, si conoscono tante cose, ma molti suoi studi non sono altrettanto studiati. Tra questi c'è appunto la “matematica dei rami”, che è uno studio affascinante: il modo in cui l'albero nasce e cresce, fa sì che sviluppi un equilibrio per resistere meglio al vento. Questo riguarda anche la configurazione dei rami, il modo in cui sono messi e si sviluppano. Esistono leggi naturali che noi avremmo il dovere di conoscere più a fondo, però a volte sono talmente difficili e “asimmetriche” rispetto alla nostra natura, che inevitabilmente ci fidiamo di più delle geometrie euclidee che delle asimmetrie della natura. Così tracciamo linee rette e piantiamo pali dritti perché è più facile l'esemplificazione, mentre il “calcolo” della natura è talmente asimmetrico che ci sfugge e ci impaurisce. Invece nel caos dell'universo esiste un incredibile e “glorioso” equilibrio».
Lei come si è visto crescere nel tempo? Ha sviluppato rami abbastanza elastici da rompere il vento?
«Ha detto una cosa interessante: il ramo si piega per resistere al vento. Ecco, la sensibilità che una persona acquisisce gli fa capire che bisogna fluire insieme al cambiamento. Il segreto sta proprio nella flessibilità del ramo e non nella sua durezza, perché ci sarà sempre un vento così forte da spezzare chi resiste. Nessun vento, invece, potrà mai spezzare il ramo “abituato” alla flessibilità. Io sono cambiato proprio in questo senso: prendo tutto ciò che accade nella mia vita come un modo in cui l'universo si presenta a me, e lo vivo con estrema serenità. Tutte le cose, complicate o facili che siano, sono parte di un unico meccanismo che comprende i due tipi d'evento come estremità opposte dello stesso diametro».
Lei ha una carriera da solista ormai molto lunga (il primo album, “Contro un'onda del mare”, è del 1996), ma ha sistematicamente cercato una dimensione del “gruppo”, dalla storica collaborazione con suo fratello Francesco per i testi, a quella con la Magical Mystery Band. È un effetto del suo essere un bassista, quindi un musicista che “deve” suonare con altri?
«Tanti bassisti compositori hanno una visione molto chiara dell'armonia, forse perché sono abituati ad andare sempre alla nota fondamentale dell'accordo. Al di là del fatto che io compongo al pianoforte, mi sembra che i bassisti compositori abbiano un modo di scrivere particolare, diverso. Non voglio paragonarmi a un Paul McCartney, a un Jack Bruce o a uno Sting, ma, da bassista, riconosco che c'è un “qualcosa” nella scrittura musicale di un bassista».
Può spiegare che cos'è questo “qualcosa”?
«Credo che si tratti della capacità di intuire il rapporto che c'è tra la nota fondamentale di un accordo, che è il riferimento del bassista, e la melodia. Tra loro c'è lo spazio “occupato” dall'accordo, e probabilmente il bassista riesce a percepire più facilmente questo contenuto, perché riesce a immaginarlo più che ad “ascoltarlo”. Quando io compongo, per esempio, sento questo spazio tra nota fondamentale e melodia, e da qui posso costruire gli accordi anche come un intreccio di linee di strumenti. Insomma, è un approccio in cui non si crea l'armonia dall'accordo, ma dalla nota fondamentale, immaginandosi poi l'accordo. È chiaro? Non so…».
Ha già citato tre bassisti che hanno fatto la storia: McCartney, Bruce, Sting… Ma qual è il suo bassista di riferimento?
«Io vengo dal mondo del jazz, ma quando ho iniziato a suonare negli Anni 80 (in quel periodo abitavo in Belgio…) stavo sia in un quartetto jazz sia in un gruppo punk. Nel quartetto suonavo con il mio basso fretless (senza tasti, ndr), il tipo di basso che usava anche Jaco Pastorius e che io ho usato per dieci anni, uno strumento tipicamente da jazz elettrico. Il giorno dopo, però, andavo a suonare col gruppo punk e attaccavo a quel basso il distorsore e il wahwah… Insomma, ho avuto una formazione anomala, una sorta di doppio percorso nel mondo dell'armonia del jazz e in quello della non armonia del punk».
Il suo “brano simbolo”, allora, potrebbe essere “Jazz Punk” di Jaco Pastorius…
«Pastorius era uno straordinario scrittore di musica. Io ascolto ancora il suo meraviglioso “Word of Mouth” e tutto quello che ha fatto con la Big Band nata da quel progetto. Per dire, ho iniziato a seguire i Weather Report perché c'era lui… E poi, paradossalmente, ho lasciato perdere Pastorius e mi sono concentrato sulle composizioni di Joe Zawinul (il tastierista fondatore dei Weather Report, ndr), che rimane una delle mie più grandi ispirazioni e mi ha segnato tantissimo nella ricerca delle armonie… Comunque ho un ricordo incredibile della Big Band di Pastorius, per esempio del suo tour in Giappone nell'82. Jaco aveva fatto degli arrangiamenti per orchestra che rimangono ancora di riferimento. Da bassista e da grande conosciutore di musica qual era, probabilmente “immaginava” molti arrangiamenti e poi li scriveva sul pentagramma: aveva un'idea in testa e forse non aveva neanche bisogno di verificarla, sapeva perfettamente che quella commistione di violini, violoncelli e contrabbassi avrebbe suonato in quel certo modo… Ecco, forse il bassista è abituato a riconoscere certe armonie perché le ha già in mente: percepisce la musica ben al di là di ciò che ascolta con le orecchie».
Parliamo del suo più antico “compagno di strada”, suo fratello Francesco Gazzè…
«Quando all'inizio degli Anni 90 ho iniziato a portare avanti progetti miei, ho cominciato a fare esperimenti musicando poesie scritte da lui, e dunque prendendo come riferimento anche la tecnica della scrittura poetica: assonanze, rime interne… Insomma, un modo di scrivere in cui c'è già musica nel testo. Se una canzone come “Sotto casa”, del 2013, non avesse avuto nel testo una metrica che già di per sé “raccontava” una musica, sarebbe stata incantabile. La parola è già musica: trovare una melodia nella musica delle parole, costruirci un arrangiamento, è parte del gioco. La collaborazione con mio fratello nasce soprattutto dal dare importanza al suono delle parole: le parole hanno un suono e il modo in cui sono messe in successione fa sì che l'armonia segua quel che è già nel testo. È una cosa a cui magari non si fa caso, ma ci sono maestri che hanno sempre lavorato così, da Fabrizio De André a Francesco Guccini. Quando suonavo punk e jazz in Belgio, io già ascoltavo “Via Paolo Fabbri 43” di Guccini. Come lui, mi portavo il fiasco di vino ai concerti e lo appoggiavo sull'amplificatore del basso, così le vibrazioni puntualmente lo facevano cadere… In quel periodo, il mio unico rapporto con la lingua italiana veniva dai cantautori, e quello è stato l'inizio della mia formazione e della mia passione verso la poesia: Eugenio Montale, che amo in modo particolare, e poi Andrea Zanzotto, Stéphane Mallarmé, Paul Verlaine…».
Quindi la struttura classica della “canzonetta” proprio non le appartiene?
«No, no, mi appartiene! A me piace uscire dagli schemi, variare, le mie canzoni non devono “raccontare” un'unica identità. Mi piace fare cose anche con rime non tecnicamente complesse: rime baciate, rime alternate… D'altronde il processo artistico si realizza quando quel che fai viene letto e interpretato anche in maniera semplice da chi ti ascolta, e si spezza quando chi ascolta non capisce che cosa stai facendo: in questo caso non sei di fronte a un processo artistico, ma solo a una pippa mentale dell'artista».
Qual è la canzone che le ha fatto capire che stava sulla strada “giusta”, unendo il tuo desiderio a quello del pubblico?
«Ogni mio disco comprende canzoni più pop, più radiofoniche, che cerco di fare in maniera dignitosa. A volte, poi, in quelle canzoni ci sono dei “camuffamenti”, nel senso che la loro “accessibilità” nasconde invece complessità negli arrangiamenti o nella produzione. “Il solito sesso”, per esempio, è un brano pop con sei tonalità e senza ritornello. “Cara Valentina” cambia accordo a ogni misura, non ha un ritornello, eppure ai concerti la cantano tutti ed è un po' il mio “cavallo di battaglia”. Sono pezzi che, secondo la tipica struttura della canzone pop, letteralmente non hanno né capo né coda, eppure “Il solito sesso” è stato uno dei brani più passati del 2008, e “Cara Valentina”, fatta uscire senza nessuna ambizione di vita radiofonica, ha aiutato moltissimo a far conoscere il disco “La favola di Adamo ed Eva”. Risultati inaspettati di questo genere danno molta soddisfazione. Anche in “La matematica dei rami” c'è un brano nato da un'ispirazione emotiva “sfogata” senza pretese, senza premeditazione: è “Figlia”. Lo ha composto la Magical Mystery Band, io l'ho portato a casa e ci ho adattato un testo di mio fratello trovando una melodia in un momento di grande ispirazione. Il risultato è sublime, secondo me. Quando ho proposto alla band la mia prova di “Figlia” è successo che ai ragazzi sono venute le lacrime per la bellezza del testo e per il modo in cui la melodia si era inserita nella canzone».
Quale canzone di “La matematica dei rami” saprà accompagnarti nel tempo con la flessibilità di un ramo?
«Non direi che “Il Farmacista” sia un brano che farà flettere i rami nel tempo… L'ho scritto tre anni fa con mio fratello, e probabilmente, col senno di poi, può essere stata frainteso nel suo intento di fare ironia sulla figura dello “scienziato pazzo”. Anzi, mi scuso con tutti i farmacisti che si sono sentiti offesi dopo averla sentito a Sanremo: non era rivolto a loro, come si capisce dalla citazione iniziale di “Frankenstein Junior”. È un pezzo sopra le righe, molto ironico, ma forse ha toccato corde un po' delicate in questo momento storico… E allora cito sicuramente “Figlia”, poi “Considerando”, e, nella sua “telluricità”, anche “L'animale guida”. Però adesso attendo i commenti di chi ascolterà, perché quando si è troppo attaccati a un lavoro si perde lucidità e alla fine il giudizio degli ascoltatori forse è più “reale”».
Visto che siamo quasi coetanei, avrei una domanda perfetta per due vecchi come noi…
«Ma dai! Siamo diversamente giovani!».
Eh, allora torno ai riferimenti ai suoi giorni di “musica totale” in Belgio, al lavoro creativo stimolato dalle poesie di suo fratello, e alla voglia di suonare con una band che ha riversato in “La matematica dei rami”… Quanta di questa “urgenza” di fare musica insieme ad altri, anche senza una direzione precisa già segnata, ritrova nei ventenni di oggi? Con tutta la tecnologia che c'è, e con la sempre minore disponibilità di posti dove suonare, non è che siamo in una situazione sempre più “divanata” e sempre meno aperta a sperimentazioni e a fecondi incontri casuali?
«Il lavoro fatto per questo disco con la Magical Mystery Band mi ha dato tanti stimoli e tanta gioia. Non avevo voglia di fare un disco stando a casa e facendo molta pre-produzione col computer. Volevo fare qualcosa di diverso e ci sono riuscito: “La matematica dei rami” nasce proprio dalla volontà di cambiare modus operandi, modo di vivere e di comporre. Probabilmente, però, se fossi nato oggi, invece di suonare il basso avrei “studiato” per diventare un ingegnere esperto di programmi come “Pro Tools”, “Cubase” o “GarageBand”… Il cantautore non usa più la chitarra acustica per comporre, ma usa questi software… Alla fine, però, l'eccellenza rimane sempre nel talento che hai nel tirare fuori qualcosa di interessante e di emotivamente coinvolgente. Sono cambiati i modi di fare musica, ma: la percezione dell'anima della musica è la stessa. E poi, certo, conta la nostra struttura culturale. Se faccio sentire a mia figlia, che ha 15 anni, la differenza che c'è tra una cosa tutta digitalizzata, fatta con i loop, e una cosa tutta suonata, senza neanche il metronomo, magari le piace, ma sicuramente sente qualcosa di strano. Se tutti ci siamo abituati a una musica “geometrizzata”, in cui ogni nota suona perfettamente intonata e ogni ritmo suona perfettamente a tempo, per un quindicenne è ancora più difficile ascoltare qualcosa che non rispecchi questi schemi. Ma anche noi possiamo sentire “stonata” un'orchestra mozambicana di balafon, per esempio, perché usa degli intervalli di tono a cui il nostro cervello non è più abituato. Il problema, dunque, è che culturalmente siamo abituati a identificare la musica seguendo uno schema armonico e ritmico che ci “bombarda” tutti giorni, e tutto ciò che esce dallo schema risulta dissonante e cacofonico, e quindi difficile da accettare. A qualunque età».