“McCartney III”, il nuovo disco di Paul “Made in Rockdown”

Cosa dobbiamo sapere del nuovo disco di un ragazzo di Liverpool che trasforma il suo lockdown in un Rockdown perché proprio non ce la fa a smettere di suonare

Paul McCartney con “McCartney III” arriva al 18° album da solista, oltre a quelli con Beatles e Wings
15 Dicembre 2020 alle 11:29

All'annullamento dell'ultima parte del “Freshen Up Tour”, che tanto dispiacere ha dato ai fan italiani pronti a vederlo a Napoli e Lucca, Paul McCartney ha risposto a modo suo.

Il lockdown imposto dalla pandemia lo ha costretto a chiudersi nella sua casa del Sussex? Lui l'ha trasformata in un nuovo luogo della sua geografia musicale: Rockdown. E ha targato proprio “Made in Rockdown” il nuovo album che ha realizzato nel suo studio domestico: “McCartney III”, in uscita venerdì 18 dicembre.


Dopo il successo di “Egypt Station” del 2018, con “McCartney III” Paul arriva a quella che nella sua ormai immensa discografia (Beatles, Wings ed esperimenti sinfonici compresi) viene elencata come la diciottesima uscita da solista, ed è una sorpresa da appassionati. “McCartney III”, infatti, si unisce naturalmente a “McCartney” del 1970 e a “McCartney II” del 1980.

Sono tre album che, come ha detto Paul stesso al magazine inglese “Loud and Quiet”, condividono il punto di partenza: «All'improvviso ho avuto molto tempo a disposizione… E quando io ho molto tempo mi dico sempre “Bene, è il momento di scrivere e registrare”». E infatti ancora una volta ha composto, suonato e inciso tutto in totale solitudine.

D'altra parte, non curante dei suoi 78 anni, McCartney suona ancora ogni giorno ed è l'“arma segreta” che l'ha salvato nelle peggiori situazioni. È sempre lui a raccontarlo: «Faccio musica ogni giorno, in un modo o nell'altro. Un mio amico una volta ha detto: “Non c'è niente di meglio delle chitarre”. È vero. Può nascere una grande amicizia con un pezzo di legno e metallo. Da bambino sono stato fortunato ad avere sempre una chitarra: quando il mondo ti si mette contro, puoi andare in un angolino con la tua chitarra e puoi raddrizzare ogni situazione. È la magia della musica, che fiorisce dal nulla».

Come nei due album “fai-da-te” precedenti, con “McCartney III” ci troviamo di fronte a una tracklist strana, non immediata. È il ritratto di quanto ribolle nella testa geniale di Paul “sistemato” in undici pezzi che coprono tutto lo spettro delle sue passioni musicali, dallo skiffle liverpooliano che fece germogliare i Beatles alla ambient. Rispetto a quegli album, però, questa volta le cose sono ancora più grezze, nude, perfino monche. È come essere invitati a un pomeriggio in studio d'incisione: McCartney gioca con gli strumenti, con qualche effetto casalingo, con le parole. Se anche non escono canzoni perfette, inevitabilmente qualcosa ti resta comunque attaccato, perché Paul è Paul e non butta mai via il suo tempo.

Non ci sono parole migliori per spiegarlo di quelle usate da lui in “Find My Way”, secondo pezzo dell'album dopo lo strumentale “Long Tailed Winter Bird” (uno scherzo per chitarra acustica): “Io mi so muovere e cammino verso la luce. Sono aperto 24 ore su 24. E non mi perdo quando scende la notte”. E visto che si sa muovere davvero, ecco che poi arrivano la ballata acustica “Pretty Boys” (“Ecco i ragazzi carini… Sanno parlare, ma non dicono nulla. Sono davvero fotogenici. Li puoi guardare, ma è meglio che non li tocchi”) e “Women and Wives”, dove sfodera il suo vocione e un pianoforte che ricorda subito “Lady Madonna”. Ancora suggestioni beatlesiane in “Lavatory Lil”, una “Polythene Pam” del XXI secolo. L'ipnotico tappeto di batteria e pianoforte di “Deep Deep Feeling” è la giusta strada che porta al rockone di “Slidin’”, inseguito dalla melodia di “The Kiss of Venus”, dove Paul recupera il suo falsetto e suoni di clavicembalo. Un'ulteriore dichiarazione d'intenti (e un richiamo alla sua fama di eterno bravo ragazzo) è quella di “Seize the Day”: “Non voglio essere cattivo, preferisco pensarci due volte. È ancora giusto essere cortesi…”. Dopo la ritmica, gelida “Deep Down” (in cui McCartney ripete come un mantra “Voglio andare in profondità, voglio andare in profondità”), l'album si chiude con un gioiello: la ripresa dell'iniziale “Winter Bird” che si unisce a “When Winter Comes”, una dolcissima ballata fiorita negli Anni 90, durante le registrazioni per “Flaming Pie” (1997), e ispirata ai giorni amari del 1970, quando Paul fuggì dalle liti che distruggevano quanto rimaneva dei Beatles rifugiandosi in campagna, in Scozia.

Proprio quelle turbolenze diedero vita al primo “McCartney” del 1970. Un disco che, materialmente, si chiudeva con una foto nel retro copertina che mostrava Paul con la sua prima figlia Mary, nata da poche settimane. Oggi Mary è una apprezzata fotografata e sono sue gran parte delle immagini che accompagnano il progetto “McCartney III”, e anche questo, in fondo, è il segno di un discorso che non s'interrompe.

Un'ultima parola per la prima cosa che di solito si guarda in un disco. La copertina di “McCartney III” è una piccola opera d'arte, progettata e realizzata da Edward Ruscha, un mito della Pop Art, che Paul McCartney conosce e apprezza da tempo. In particolare, è il lungo lavoro di Ruscha sul lettering, ovvero sulla progettazione degli stili con cui possiamo scrivere le lettere dell'alfabeto, che ha conquistato McCartney: «Il tipo di lettere che usa Ruscha mi ricorda le lezioni di disegno che prendevo da ragazzo, ai tempi del Liverpool Institute». Per la cover dell'album, dunque, Ruscha ha puntato su un dado che mostra la faccia con il numero 3 e ha usato per le scritte un carattere da lui “progettato” nel 1981, battezzato Boy Scout Utility Modern, e spiegato in questo modo: «Se una compagna telefonica organizzasse un picnic aziendale e chiedesse a un impiegato di realizzare un poster per informare i colleghi, lui lo scriverebbe usando questo stile».

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