“Noi due”, il nuovo album di Gigi D’Alessio : «Un disco moderno, con tante sorprese»

Il diciottesimo disco d'inediti della sua carriera è in uscita il 18 ottobre. Un album in cui sembra voler liberare tutta la sua versatilità, misurandosi con diversi linguaggi sonori e sorprendenti featuring, senza perdere la propria identità artistica

Gigi D'Alessio
14 Ottobre 2019 alle 15:00

«Molti artisti a un certo punto dicono: “Questo è il mio disco della maturità”. Ora, siccome io è già da un po' che sono maturo, ti dico che il mio è un disco che guarda ai suoni di oggi senza dimenticare quelli di ieri. Un disco moderno, con tante sorprese, pieno di novità. Ricco di suoni e di collaborazioni».

Gigi D'Alessio racconta così “Noi due”, il diciottesimo disco d'inediti della sua carriera in uscita il 18 ottobre. Un album in cui sembra voler liberare tutta la sua versatilità, misurandosi con diversi linguaggi sonori e sorprendenti featuring, senza perdere la propria identità artistica. «L'ho voluto raccontare fin dalla copertina dove ci sono io come sono oggi e la mia ombra alle spalle: l'ombra è la cosa da cui non puoi staccarti, il tuo passato, le tue radici».


Il disco, anticipato quest'estate da “Domani vedrai” e da “Quanto amore si da”, con featuring del suo collega di giuria a “The Voice” Guè Pequeno, vanta una ricca lista di ospiti, da Fiorella Mannoia, partner in “L'ammore” (il nuovo singolo), a Giusy Ferreri (“Non solo parole”), oltre ai rapper Guè Pequeno, Emis Killa (“La Milano da bere”) e Luche (“Come me”).

«M'interessa il rap», spiega Gigi, «perché non bisogna snobbare, né fare come fanno i vecchi: “ai tempi miei..”. Io rispetto questa nuova ondata che secondo me sta facendo bene a tutta la musica italiana. Poi, come tutte le cose ci sta chi è bravo, chi è meno bravo, chi è bravissimo e chi è mediocre. L'importante, comunque, è riuscire a portare loro nel mio mondo, non voglio sembrare uno che vuole fare il rapper: sarei ridicolo».

Ci sono molti pezzi in napoletano.
«Già. L'album è bilingue: ci sono brani in italiano e brani in napoletano. Quella è la mia lingua. Noi nasciamo prima napoletani e poi italiani. Siamo bilingue fin dalla nascita. E poi mi è piaciuto proprio l'esperimento di far cantare Fiorella Mannoia in napoletano. Comunque non ho rinunciato a nulla: oggi si vive di singoli, ma io vorrei far conoscere tutto l'album. Non volevo mettere doppioni, volevo variare».

C'è un brano, “Mentre a vita se ne va”, abbastanza insolito. Si parla di anziani...
«Vedi, quello che tu hai sentito è quello che io ho vissuto. Quel pezzo è nato guardando un vecchietto: mi ha aperto un mondo. E ti confesso che mentre lo scrivevo ho pianto. Passiamo tutti ore davanti a uno schermo o a un telefonino, poi magari non troviamo un minuto per andare ad abbracciare i nostri vecchi. È un brano amaro, perché ho voluto descrivere le sofferenze di queste persone e le conseguenze della modernità: oggi prendono le badanti che per soldi fanno una carezza, ma che a volte li maltrattano anche».

Da dove è nata l'esigenza di rifare “Non dirgli mai”?
«Quella canzone ha vent'anni, è diventata signorina. Sentirla vestita in quel modo, mi ha dato una grandissima emozione. Perché io quando la canto mi ricordo inevitabilmente di come e quando l'ho scritta, cosa facevo, come mi sentivo. È stato meraviglioso».

Lei, la protagonista, è esistita davvero?
«Sì. Come sempre. Il 90 per cento delle volte parto da una verità. Certo, sarà vecchia ormai (ride).

Con quel brano diventasti… italiano
«Arrivavo a Sanremo con già otto album alle spalle. A Napoli ero una celebrità, nel resto d'Italia nessuno mi conosceva. Fui inserito direttamente nei big, a combattere con Morandi e Giorgia, artisti che avevano già scritto la storia della musica. È andata bene: Sanremo o ti apre le porte del mondo o ti chiude anche quelle di casa».

Altri artisti napoletani ci hanno provato, ma sono dovuti tornare indietro
«La gestione è importante. Bisogna guardare avanti, curare i rapporti, scrivere tanto in italiano. Io dopo il e secondo e terzo album già ragionavo in quel modo. Mi dicevo "ma se riempo gli stadi a Napoli perché non posso farlo pure a Milano?"».

C'era tanto snobismo verso di te all'inizio.
«Purtroppo sì. La parola neomelodico l'hanno trasformata in una parola razzista, un'etichetta infamante. Se Ultimo nasce a Roma e fa gli stadi è un cantautore romano. Quando io riempivo gli stadi a Napoli ero per forza un cantante neomelodico. Se si ragiona così allora pure Ramazzotti è neomelodico, perché la old melodia era Claudio Villa».

Sei stato la rivelazione di “The Voice”. Lo rifarai?
«In tv io mi diverto. Certo, non è che posso andare a fare Piero Angela, spiegare come sono nati i Guelfi e i Ghibellini. Se vado in tv devo parlare di musica e lì era perfetto. Se mi chiedono di rifarlo penso proprio di sì. Mi sono divertito e non ti nascondo che mi piacerebbe fare il produttore. Se hai esperienza, perché non trasmetterla ai giovani? Difendendo sempre l'italianità. Perché tutti arrivano cantando in inglese e io, invece, a “The Voice” insistevo: “Ma 'na canzone italiana ce l'hai?”».

Mai pensato di fare le fiction come Morandi?
«Guarda ho fatto dei film a inizio carriera, ma sono rimasto scioccato: odio perfino fare i servizi fotografici e i videoclip. Invece, fammi stare sei giorni in sala d'incisione senza mangiare e senza dormire e io sono felice. Sto nel mio habitat».

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