Paola Turci, il nuovo Viva da morire: «È stato un album inatteso»

A un mese dall’ultimo Festival di Sanremo, il 15 marzo l’artista romana torna con un inno alla vita ricco di energia


12 Marzo 2019 alle 17:03

Ha smascherato le sue cicatrici e rimpicciolito quelle insicurezze che si portava dietro da troppi anni: ad accoglierci è una Paola Turci più bella che mai. È raggiante, in tenuta sportiva ma con quella consueta eleganza innata alla quale ci siamo abituati negli ultimi anni sul palco dell’Ariston: prima con Fatti bella per te poi con L’ultimo ostacolo, non si può dire che sia passata inosservata. Come non lo sono le sue recenti canzoni «Un lavoro necessario per volermi bene».

«Tra crisi esistenziali e infelicità giovanile, la musica mi ha salvata» ci racconta, con lei sarebbe impossibile non confidarsi a cuore aperto. I suoi occhi sono lo specchio delle sue emozioni: lucidi quando si parla di suo padre, brillanti quando racconta il nuovo disco. In tutti i negozi dal 15 marzo, Viva da morire è composto da dieci episodi, ognuno con il suo personale arrangiamento. Una progetto inaspettato, ma costruito insieme al produttore Luca Chiaravalli.

Il Festival di Sanremo, la storia di Lucia Annibali, la decadenza del nostro Paese e il ricordo di un padre che riaffiora in momenti che non ti aspetti («Poco prima di salire sul palco dell’Ariston, è arrivato nella mia testa e mi accompagnata tutte le serate» ci dice): abbiamo incontrato Paola e ci ha raccontato tutte le sfumature di un album che merita di essere ascoltato.

A un mese dall’esperienza sanremese, che sensazioni ti sei portata dietro da questo Festival?
«I momenti con Sorrisi sono stati tra i più belli, mi sono trovata in famiglia. C’era un’aria di festa che si contrapponeva alla tensione di un palco importante, che in quest’edizione si è vissuta in particolar modo».

Credi che il pubblico abbia recepito tutto quello che avevi da dire?
«Penso di sì. Volevo trasmettere le mie fragilità e non quell’assoluta certezza di aver capito tutto nella vita [ride]. È stato bello poter arrivare con una canzone intitolata L’ultimo ostacolo, dove ho raccontato del bisogno di avere accanto una figura paterna. Il ricercare un “supereroe” è come ammettere di sentirsi “piccoli”».

E dal palco dell’Ariston arriviamo a oggi: il 15 marzo esce Viva da morire. Cosa racconta di te?
«Questo progetto mi descrive stranamente molto bene perché è un album da interprete composto di penne altre. Racconta quella che sono, che sono stata e quella che vorrei essere».

L’energia di questo album sembra collegarsi a Secondo cuore pubblicato nel 2017.
«No, sono due storie completamente diverse. In Viva da morire esprimo al meglio la mia vitalità con un velo di malinconia ma soprattutto si parla di noi, e non più dell’io di Fatti bella per te».

Dunque ci saranno nuove consapevolezze.
«Ora che sono compiuta e definita, mi rendo conto che la nostra vita ha soltanto due momenti di solitudine: l’inizio e la fine. Ma dentro siamo insieme, è questa la mia scoperta: la ricerca del sé per stare insieme all’altro. E mi rendo conto che questo combacia con i tempi che viviamo in cui c’è la tendenza ad allontanare l’altro, a definirlo diverso».

Nella malinconica La vita copiata in bella canti «C’è in atto una rivoluzione anche quando non si sente». Credi ancora nel cambiamento positivo del nostro Paese?
«Si dovrebbe mettere in atto dentro ognuno di noi la consapevolezza di non essere soli, è da qui che si parte. Siamo rimasti delusi, ci hanno fatto del male ma se perdiamo la fiducia non possiamo dire di essere vivi. Serve sentirci bene insieme all’altro, conoscere la nostra cultura e capire come può evolversi questo nostro Paese meraviglioso. Su certi temi siamo ancora indietro, penso alle donne ad esempio».


A proposito di donne, inizialmente L’arte di ricominciare era ispirata alla figura di Lucia Annibali.
«Era il periodo in cui avevo deciso il titolo dell’album Io sono, ma quelle parole non mi suonavano del tutto nuove. Un giorno mi sono svegliata ricordandomi che pochi giorni prima era uscito il libro di Lucia con un titolo molto simile, l’ho comprato subito. Le affinità erano tante: è una donna meravigliosa che è tornata alla vita dopo l’orrenda storia di barbarie, nulla l’ha fermata».

E questa storia di coraggio l’hai trasformata in musica.
«Dopo averlo letto ne ho parlato con Giulia Ananìa, una delle autrici del brano. Abbiamo iniziato a sviscerare le idee con la voglia di lavorare proprio su quel tema. Ed ecco “il fiore che rompe la terra” e impara l’arte del ricominciare. È un brano nato due anni fa, il primo di questo album».

Insieme al produttore e autore Luca Chiaravalli hai condiviso il grido Viva da morire.
«Quando l’ho conosciuto tre anni fa, siamo entrati in sintonia attraverso le nostre avventure di vita. Durante la lavorazione di questo disco ha dovuto subire un intervento molto delicato, la sua è una storia forte tra la vita e la morte. Tornando alla vita, l’ha ringraziata, ha sorriso e l’ha condivisa. È l’anima di questo progetto, che all’inizio non era stato nemmeno programmato».

«Non ho mai parlato così tanto di mio padre da quando è scomparso» leggo in una tua intervista, e anche in questo disco è molto presente.
«Non è stata la musica a chiamarlo, è stato lui a voler venire. Un po’ come accade nelle canzoni. Non ci ho mai pensato ma mi è venuto in mente sin dal primo verso de L’ultimo ostacolo, mi ha fatto tornare alla mente un momento fortissimo».

Quale?
«L’ultimo respiro della sua vita lo ha fatto davanti a me, è stato scioccante. “Fermati che non è l’ora dei saluti” è l’incipit del brano, l’idea di ritornare a quel momento e scriverne».

A maggio ci saranno due eventi speciali a Roma e Milano, poi partirai a novembre con un tour: come ti immagini questa energia positiva sprigionata sul palco di un teatro?
«Attraverso i momenti più intimi, acustici. Come capita a me nelle migliori occasioni, vorrei far emozionare. Hai presente quando una canzone o una voce ti fa mancare quasi il respiro e comincia a batterti forte il cuore? Vorrei provare e far provare quell’emozione».

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