Sono Rocco Hunt, con tutti i miei graffi e la mia “Rivoluzione”

Il rapper autore di vari tormentoni estivi è tornato con 15 brani (tra cover e pezzi inediti) in cui collabora con tanti colleghi

Rocco Hunt
11 Novembre 2021 alle 08:49

Rocco Pagliarulo, in arte Rocco Hunt. C’è chi lo chiama ancora “Rocchino”, pure ora che sta per compiere 27 anni, il 21 novembre; altri, invece, “poeta urbano” come si è firmato sin dall’inizio laddove l’“urbe” da lui cantata è Salerno, dove è nato e cresciuto, Napoli, dove ha sperimentato musica di ogni genere e la Campania che l’ha allevato nella lingua e nelle parole. Diventato noto al grande pubblico nel 2014 quando vinse la sezione Nuove proposte del Festival di Sanremo con il singolo “Nu juorno buono”, Rocco Hunt presenta ora il quinto album in otto anni dal titolo impegnativo di “Rivoluzione”. Un mix di spensierati tormentoni estivi a ritmo di bachata, pezzi duri con basi rap e con testi pesanti (e pensati) e brani pop-soul più gioiosi. Nell’introduzione compare l’opinionista sportivo Lele Adani che legge: «E quando la tua voce comincia a far rumore, allora sentirai che inizia la rivoluzione...».

Rocco, la tua “rivoluzione” quando ha avuto inizio?
«Quando ho cominciato a fare musica e a diventare indipendente. In quel momento è cambiato il mio status: vengo da una famiglia umile e modesta, con pochi mezzi, ho lavorato anche in una pescheria, sono partito da lì».

“Dalla fame alla fama”: proprio come canti in un pezzo.
«È un po’ volgare dirlo, ma io sono rapper e dico le cose come stanno. Per me è una bella soddisfazione. Come mi ha detto mio padre, nessuno mi ha mai regalato niente, quello che ho l’ho costruito con i sacrifici, con la mia faccia stampata e graffiata».

Graffiata come sulla copertina dell’album.
«È l’omaggio che mi ha fatto Jorit, street artist napoletano di fama internazionale: lui sì è un vero rivoluzionario, stimato in tutto il mondo per la “human tribe”, la tribù umana graffiata con il suo tratto tipico».

I segni sul viso sono un passaggio nella vita.
«Io sono passato da ragazzo a persona adulta. Si può dire adulto a 26 anni? Sono cresciuto molto in questo ultimo periodo, mio figlio Giovanni mi ha responsabilizzato, mi ha donato un po’ di saggezza e di consapevolezza».

Nella musica la paternità come ti ha cambiato?
«Da quando sono diventato padre sto più attento ai messaggi che metto nelle canzoni, non puoi fare i testi leggeri che facevi a 15 anni, c’è tuo figlio che ascolta i pezzi e se non gli dai l’esempio tu...».

Sei stato un bambino ribelle?
«A scuola sì, mi piaceva mettermi al centro dell’attenzione e poi alla fine dell’anno venivo bocciato. A casa mi facevo i fatti miei, mi chiudevo nella mia stanzetta e creavo. La mancanza ti fa avere fame. Se uno ha tutto cosa crea?».

Questo album è un condensato della tua musica.
«Ci sono racchiuse le mie varie anime e sfaccettature. Non potevo non inserire brani estivi come “A un passo dalla luna” che ha avuto successo in Spagna, Francia, Svizzera. E poi ci sono dieci inediti, volevo cambiare rotta».

Che rotta hai preso?
«Non che mi sia stufato, anzi ringrazio sempre il cielo per le vendite dei singoli estivi, ma volevo anche la “certificazione” di credibilità nel mio genere. Volevo lavorare con Fabri Fibra, uno dei miei rapper preferiti, con Gué Pequeno e con i ragazzi della urban wave napoletana».

Il tuo genere, insomma, resta il rap.
«Il rap, mia croce e delizia! Quando nasci in questo genere ti resta dentro tutta la vita. Volevo rimarcare il territorio».

Nei testi più duri parli di sparatorie, orfanatrofi, dei muri di Scampia...
«Parlo dei miei amici che magari hanno percorso strade sbagliate e non ci sono più, ci sono tante cicatrici che ci restano sulla pelle. Si parla anche di fede, io sono uno che ha bisogno di credere in qualcosa».

Sei credente?
«Sono credente, ma non praticante. Lo sono, vuoi per l’educazione cattolica e i suoi valori, vuoi perché abbiamo bisogno di rifugiarci in qualcosa. Poi credo anche nel detto: “Aiutati che Dio ti aiuta”, siamo noi la nostra forza».

Il brano che ti è venuto di getto?
«“Fiocco azzurro”, su mio figlio, e “L’urdemo vase”, un pezzo napoletano molto sentito, li ho scritti in un giorno. Poi passano quattro mesi e magari non fai niente».

Com’è che decidi: questo lo canto in napoletano e questo in italiano?
«Ti viene e basta. Alcune tematiche si possono trattare solo in dialetto: il dialetto fortifica il concetto e alcuni suoni sono meglio di altri. Poi ci sono brani che vanno capiti da tutti, soprattutto i singoli, se voglio farli passare in radio o andare in tv cerco di scriverli in una lingua che capiscano da Roma in su. Anche se ora il napoletano va di moda».

Prima si usava meno?
«Al Festival di Sanremo nel 2014 ho dovuto cambiare “stammatina m’a scetat’o sol” con “stamattina mi ha svegliato il sole”. Adesso non credo me lo chiederebbero, ci sono Dischi di platino tutti cantati in napoletano».

Ultima citazione dall’album: “Pensa cosa avessi fatto se non facevo l’hip hop”.
«Adesso non ci penso più, forse qualche anno fa ancora ci pensavo, non avevo la solidità che ho raggiunto, avevo situazioni familiari da sistemare. Ora sono tranquillo, sono un po’ più solido e “appacciato”. Si dice “appaciato”? Significa “in pace”».

Seguici