Tutti Fenomeni: il nuovo album “Privilegio Raro” è il primo passo per la rivoluzione

«Sono orgoglioso e grato se qualcuno dedicherà il suo tempo per ascoltare il mio disco»

Tutti Fenomeni  Credit: © Ilaria Ieie
23 Maggio 2022 alle 17:24

Tutti Fenomeni, per gli amici Giorgio, è un artista eclettico che sfugge alle etichette di genere che poco importano se il risultato funziona. Ne è la prova "Privilegio Raro" il suo secondo disco uscito lo scorso 6 maggio. Come per il suo debutto "Merce Funebre" (2020), che lo ha consacrato enfant prodige della nuova musica italiana, anche questa volta gioca con le parole e con i generi, reinterpreta, distrugge e rielabora, come un acuto osservatore curioso, tutto ciò che lo circonda – o, meglio, che lo interessa.

«Un album di autoanalisi» così lo definisce, senza mai scadere nella mera autoreferenzialità, cercando sempre di dare vita a un Io collettivo – «non faccio musica per egoismo o per egotismo, o per vanità. Parlo sempre di un Io più grande che parte dall'Io personale». Tra le sue armi: una sfilza di citazioni, giochi di parole e aforismi che non ha paura di usare. «La sfida è stata quella di rendere abbastanza fruibile tutte queste citazioni "alte" e interessi musicali-letterari in un disco» ci ha spiegato Giorgio al telefono. E così, liturgia e filosofia si amalgamano al nazional-popolare, per un risultato che è tutto e niente, eppure di un'identità unica. Abbiamo intervistato Tutti Fenomeni per capire meglio con lui la sua musica e il suo mondo.

Una domanda di routine per scaldare i motori: com'è nato il tuo ultimo album "Privilegio Raro"?
«È nato durante la pandemia, quindi è anche figlio delle letture che ho approfondito durante i primi momenti di lockdown. Per questo è molto vario, ma sullo sfondo c'è un un'inquietudine sul mondo che stava cambiando e anche sul mio cambiamento. Tratta di molte cose, ci sono momenti più tristi, momenti più solari, parla un po' di Roma, la mia città, e delle mie passioni che sono prettamente di carattere letterario-musicale. Ci sono anche domande che faccio a me stesso a cui non so rispondere, che si aprono a più risposte e a più interpretazioni e che cercano di far partecipare l'ascoltatore attento».

Il tuo primo disco ("Merce Funebre") è del 2020: cosa è cambiato da allora e come sei cambiato tu?
«Nel primo disco attingevo di più dal mondo generazionale in cui mi trovavo, dal momento di transizione che passava: i primi vent'anni. Il secondo, invece, è stato una sorta di chiusura verso l'attualità e una ricerca nel passato. "Privilegio Raro" è un album di rilancio dell'inattuale, dettato dalla non soddisfazione piena di ciò che offre il mondo di oggi, socialmente e culturalmente, che mi ha portato a riesplorare il passato, in maniera un po' contestatrice. Mi sento comunque in continuità con il me del primo disco. Il paradigma con cui scrivo le canzoni è più o meno lo stesso: nasce da una curiosità, da una voglia di innescare anche nell'ascoltatore un qualcosa, una riflessione».

Non sei trap, non sei indie, non fai musica elettronica, ma sei pop a modo tuo. Sei tutto e il contrario di tutto: come descriveresti la tua musica?
«Amo tutti i generi musicali, quindi voglio cercare di dare la mia personale sfumatura a ogni sonorità. Non mi accontento mai di un solo genere, mi annoia. Descriverei il mio genere musicale partendo dalle parole, dalla poesia, dalla letteratura. Ad esempio, se in quel periodo ho letto questo libro o visto quel film cerco di approcciarmi a quello stile. Poi, se il risultato è interessante significa che chi l'ha fatto era interessato. Penso che una delle mie "qualità", uno dei miei modi di stare al mondo, è ascoltare. E la pazienza, soprattutto la pazienza di interessarmi. E da lì nascono diversi interessi, diverse influenze che portano a fare una cosa non usuale».

Il citazionismo è il tuo tratto distintivo, la tua firma: è un'indole spontanea o una scelta razionale per veicolare i tuoi pensieri attraverso la musica?
«Ho sempre costruito la mia personalità, il mio lessico, la mia poetica sugli aforismi. Sono uno che rimane sempre molto colpito dalle parole e dalle frasi. Da quando ho capito che ho un minimo di musicalità, ho cercato di sfidare il fatto di dire cose complicate nella musica e poi unirle. Dalle interviste, parlando con le persone, mi rendo conto che ognuno dà ai miei testi un'interpretazione diversa e molte sono magnifiche, quindi sono abbastanza soddisfatto di questo mio modo di fare musica.»

Spulciando qualche articolo su di te, spesso si parla di rivoluzione della musica italiana: ma secondo te, come si rivoluziona la musica?
«Di sicuro non si rivoluziona pretendendo di rivoluzionarla oggi. Si rivoluziona scorrendo, lasciando dei semi fertili, con una promessa di rivoluzione e indicando la strada come si farebbe a un cieco. Se indichi la strada alla massa non serve a niente, ma se la indichi a un cieco, in un modo più sottile e subliminale, allora, forse, può nascere la fertilità per una rivoluzione. Io personalmente mi sento un "mini-seme" che cerca di riprendere qualcosa che è già stato fatto di buono nel passato. È molto presuntuoso pensare di indicare la strada però, amando la qualità, se riesco a influenzare anche una sola persona ad amarla come me, può nascere qualcosa di simile al bene e al bello».

Nel tuo brano "Mister Arduino" canti "Meglio essere una merda che un mito": come la vivi la popolarità?
«È il grande dilemma che è dentro di me. In realtà non voglio essere famoso, nel senso che se diventassi davvero famoso sarebbe una cosa insopportabile, però quando fai musica, quando ti esponi, hai bisogno comunque di un riconoscimento, oppure, sotto sotto, un minimo l'ambisci. Sono una persona schiva e timida che non cerca le luci della ribalta, ma se devo essere onesto, se facessi un disco e nessuno ne parlasse, nessuno mi dicesse che per lui è importato qualcosa, forse ne sarei molto deluso. Sto vivendo in questa via di mezzo, un continuo avvicinarmi a una sorta di fama per poi allontanarmi, e per il momento è il giusto equilibrio che ho trovato. Inoltre, per me il pubblico è molto importante: voglio arrivare a un pubblico totalmente in sintonia con me, perché pretendo dal mio ascoltatore uno scambio di opportunità e arricchimento reciproci».

Un album senza feat, una scelta controcorrente se pensiamo alle pubblicazioni degli ultimi anni, ma che a sorpresa svela una collaborazione con Francesco Bianconi: come è successo?
«È nata in studio parlandone con Niccolò Contessa (produttore). Nei due dischi ho scelto di non includere featuring, perché sono lavori molto personali, li considero come un flusso continuo della mia mente. Però a un certo punto in quella canzone ("Antidoto alla Morte"), sentivano la necessità di non sentire più la mia voce e quindi abbiamo proposto a Francesco Bianconi di cantare un mio ritornello. Sapevo che gli era piaciuto il mio primo disco, non ci conosciamo personalmente, ma quando glielo abbiamo chiesto ha detto che la canzone gli piaceva molto e lo faceva molto volentieri. È stata proprio una ciliegina, un regalo che lui mi ha fatto».

Venerdì 27 maggio salirai di nuovo sul palco per esibirti dal vivo (al Mi Ami Festival di Milano): che effetto fa?
«È il primo concerto e sarà sicuramente quello più teso, però spero che vada bene. Voglio pensarlo come una prima nuova grande festa. Sono stato un po' in panchina, l'ultimo concerto fu proprio a Milano a settembre. Una cosa che ho imparato tra il primo e il secondo disco è che quest'ultimo l'ho scritto più nelle mie corde da cantare, quindi penso penso che potrò divertirmi di più a stare sul palco, con meno ansia. Il primo disco era molto pretenzioso, ha delle tonalità molto strane, era più avanti del mio livello. Ho maturato anche un po' di esperienza per i live e i ragazzi con cui collaboro sono fantastici, gli piace molto la mia musica, sono tutti bravi».

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